Le prime notizie di quanto avveniva in Francia arrivarono presto nel Trentino portate da profughi e da fuggiaschi, destando nelle città e nei paesi sentimenti di profonda inquietudine. L'attenzione ai fatti e misfatti della Rivoluzione divenne generale. Se ne allarmò l'autorità, sia quella militare che quella del Principe Vescovo, perché il pericolo di uno straripamento, anche solo ideologico, della Rivoluzione verso l'Europa costituiva una seria minaccia. Qualche anno dopo il timore divenne realtà: nell'estate del 1796 le armate di Napoleone, vittoriose nella campagna d'Italia, risalirono le valli trentine proclamandosi liberatrici e apportatrici degli ideali rivoluzionari di libertà e uguaglianza.
L'ambiente trentino, formato in gran parte, per il 90%, di contadini, si mantenne freddo e ostile. Solo nelle città di Rovereto e di Trento si fece vivo qualche simpatizzante giacobino tra gli esponenti intellettuali della nobiltà e dell'alta borghesia; la massa degli artigiani e dei commercianti, però, tenne le porte chiuse, stette a guardare sospettosa, con grande apprensione.
Qui viene spontanea una domanda: come si spiega questo generale e netto rifiuto del mondo trentino al decantato messianismo della Rivoluzione francese e ai suoi predicatori?
Ci pare che si possano indicare tre grosse ragioni: anzitutto perché si trattava di una rivoluzione, poi perché aveva un'impronta decisamente antireligiosa e, in terzo luogo, perché era francese.
Il contadino trentino-tirolese serbava tradizioni robuste, secolari, profondamente radicate nell'animo e nel costume. Abituato, per sopravvivere, al lento avvicendarsi delle stagioni, alla quotidiana fatica e all'attesa paziente, era diffidente per natura verso le insurrezioni violente, impostate improvvisamente e brutalmente dall'alto. Le sentiva innaturali, pericolose come un uragano. Dire rivoluzione era, per lui, dire confusione; ed anche il 1848, l'anno della grande rivoluzione europea, entrerà nel linguaggio popolare come sinonimo di guazzabuglio, di situazione caotica: «L'è en quarantòt!».
Sul finire del secolo XVIII, la situazione economico-sociale era quella di sempre, difficile ed impegnativa per le classi povere. Il contadino non si aspettava nulla da chi comandava, chiedeva solo di essere lasciato in pace nel suo duro lavoro. Contava su sé stesso, sulle sue personali prestazioni. Non sapeva credere ai miraggi di un paradiso in terra. Le folgoranti parole di «libertà, uguaglianza e fraternità», se lo sorpresero, non lo incantarono. Le avvertì, quasi di istinto, come chiacchiere propagandistiche, bolle di sapone, pure astrazioni in discordanza con la realtà in cui viveva, per nulla innovatrici nel confronto con le libertà comunali acquisite, a caro prezzo, da lungo tempo.
Alla proclamazione e all'esaltazione di una libertà astratta ed individualista come quella dei rivoluzionari francesi, il mondo contadino guardava alle sue libertà concrete e locali e si riparava, come in una trincea, dietro i diritti di famiglia e delle autonome comunità che le generazioni del passato avevano elaborato e raccolto nelle Carte di Regola. «A casa mia entra il vento e il sole, ma non ci mette piede il re», era il vecchio detto del contadino giudicariese. La casetta, anche se povera e piccola, contava quanto una reggia, era il cuore della sua libertà. Il regno era la terra che aveva ereditato dal padre, terra amata, fedele, paziente e silenziosa: essa era la sua Patria. All'invasore francese che osava violarla, anche se intendeva presentarsi nelle vesti di un liberatore, il contadino trentino-tirolese non concesse credito, non credette per niente, anzi, oppose un fermo rifiuto. (Continua)
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