lunedì 25 marzo 2013

Una vicenda di fanciulli


Annuario del collegio arcivescovile di Trento, 1994/1995, n. 61, pp. 54-55

Lui aveva dieci anni, due più di me. La vita l'aveva già fatto robusto e serio, portava ormai sulla fronte una riga che a me pareva segno di maturazione e di nobiltà. Orfano di papà e mamma, veniva da un paese della valle dove era cresciuto presso parenti che non erano stati eccessivamente teneri con lui. Gli avevano procurato di che vivere, ma avevano anche preteso molto. La fanciullezza per lui non era stata serena, solo lavoro quotidiano, rabbuffi frequenti e poche soddisfazioni. 
In autunno era comparso nel mio villaggio, presso una vecchia zia, anzi prozia per l'esattezza, quella che acquistava le uova nelle nostre case per venderle all'ingrosso. Lui veniva a scuola con noi, era pulito e vestito decentemente ma non giocava mai con noi, perché a casa lo aspettava ogni giorno un impegno, di andare con il carretto nel bosco della comunità a prendere legna. 
Vedendolo sfacchinare come un adulto, mi faceva pena e qualche volta mi accompagnai a lui e lo aiutai a cercare la ramaglia. Parve accettare con riconoscenza il mio interessamento e in poco tempo diventammo amici. In primavera mi indicò il primo nido e più tardi mi guidò in un posto dove i ciliegi selvatici maturavano i primi frutti. Sapeva fare anche degli archetti per prendere uccellini: «Polenta e osei è un cibo degli dei», mi ripeteva più volte con solennità. Era, in breve, per me un tipo interessante, che affrontava ogni situazione con grande energia. Sapeva battersi con ragazzi più vecchi e più forti quando riteneva di avere ragione o lo volevano mortificare. Quando perdeva, perdeva con dignità e si allontanava dal luogo della contesa senza piagnucolare. 
Io lo ammiravo e lo invidiavo per il coraggio e la forza di carattere. Mi aveva confidato che quando portava a casa un fascio di legna grosso, la zia gli dava venti centesimi. Toccava anche a me fare dei lavorucci in casa, ma sempre senza compensi. Solo alla domenica mio padre mi dava una moneta da venti, con la quale mi comperavo un pugno di castagne secche o carruba. 
Una sera aiutai l'amico a tirare a casa il carretto ben carico di legna e sentii sua zia, che per me era più brutta di una strega. lodarlo con belle parole e la vidi levare di sotto il grembiule e dargli quella invidiabile moneta luccicante, così preziosa negli anni Trenta, quando un lavoratore adulto guadagnava una lira al giorno. Tornai a casa deciso a mettere le cose a posto. 
Quel giorno, era estate, mi pareva di aver sfacchinato abbastanza per la famiglia. Andai nella mia stanzetta, levai dal brogliaccio di scuola un foglio e vergai un biglietto di questo tenore: «Quello che la mamma mi deve: per i tre fasci di legna tagliati, centesimi 20; per la colazione e la merenda portate in campagna al papà, centesimi 40; per la lettera imbucata e l'acquisto dello zucchero, centesimi 20: totale centesimi 80». 
Quando venne l'ora di andare a letto, entrai furtivo nella stanza dei genitori e misi il biglietto sul comodino della mamma, convinto, finalmente, di ottenere giustizia. Ricordo che in quella notte fui assai inquieto e mi svegliai più volte pensando ai soldi. Mi alzai di buon mattino e, cosa insolita per un dormiglione, sentii che mio padre scendeva le scale per andare nella stalla e che mia madre era già al lavoro in cucina. Mi infilai i pantaloncini e scalzo, per non fare rumore, uscii dalla mia stanza ed entrai in quella dei genitori. 
Fu un momento di meraviglia e di profonda soddisfazione lo scorgere sul comodino di mia madre un mucchietto di centesimi. Li ghermii di colpo, felice del risultato. Solo che, sotto le monete, c'era un biglietto scritto con quella grafia obliqua e limpida che ben conoscevo. Ripeteva la frase della mia richiesta in una forma inaspettata: «Quello che mio figlio mi deve: per averlo allevato e nutrito per otto lunghi anni, ...! per averlo vestito man mano che cresceva con vestiti sempre nuovi...! per averlo assistito notte e giorno quando era ammalato,...! quello che mio figlio mi deve: Nulla! La mamma!». 
Questo non me l'aspettavo proprio! Stetti lì un paio di minuti incerto se rimettere i soldi sul comodino, quando mia madre comparve nel vano della porta. Vide la mia sorpresa e il sincero imbarazzo. Mi vergognavo, non sapevo che fare, che dire, se piangere o meno: «Tienili, — mi disse con voce tranquilla — mettili nel tuo salvadanaio. Ma in questa casa, non vedere solo te stesso! Ci siamo anche noi e lavoriamo duramente per aiutarci a volerci bene, senza pretendere che qualcuno ci paghi». 
Avevo otto anni, non ero né buono, né cattivo ma questa vicenda mi insegnò per tempo molte cose. 
Lorenzo Dalponte 

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