lunedì 25 marzo 2013

Prof. don Giuseppe Segata (1865-1916)


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Nativo di Trento, frequentò per due anni il Ginnasio Imperiale e poi passò al Vescovile, distinguendosi per diligenza, profitto e bontà. Su consiglio del Vescovo mons. Dalla Bona si iscrisse alla facoltà di filosofia e teologia dell'università di Innsbruck. Nel 1888 fu ordinato sacerdote e nel 1890 completò gli studi con la laurea. 
Tornò al Collegio Vescovile come insegnante di tedesco e di italiano.
Si guadagnò presto la stima e l'affetto degli studenti per il suo insegnamento brillante e premuroso. Non c'era mai da annoiarsi durante le sue lezioni. Era un artista, dall'anima bella e sensibile, e per di più era un musicista fine. Gli furono affidati il coro e il teatrino dell'Istituto, ai quali per ventidue anni dedicò il tempo libero, con grande energia e buon gusto. 
Il teatro del Collegio era sistemato in un primo tempo nella casa centrale di via Madruzzo, al piano terra, di fronte alla cappella, nella sala che oggi contiene la biblioteca diocesana «Antonio Rosmini». Aveva un palcoscenico ampio e profondo, la platea in leggera pendenza e una graziosa loggia. Possedeva scenari e quinte dipinte dal pittore Aldi. Nel 1910 fu sostituito da un teatro nuovo, più vasto e funzionale, costruito sotto la grande chiesa. 
Nell'uno e nell'altro, don Segata, con la sua abilità e pazienza delle rappresentazioni squisitamente artistiche, come l'Adelchi del Manzoni, il Macbeth di Shakespeare, il Nabucco del Verdi e il Polinto di Donizetti. 
Versatissimo come era nella sacra liturgia, coprì con successo per diversi anni l'ufficio di cerimoniere vescovile in Duomo, nei pontificali con il Vescovo. Curò per anni la compilazione del calendario diocesano, anche quello del 1916 durante i primi mesi della sua permanenza tra i profughi in Moravia. 
Don Giuseppe Segata
Nell'estate del 1915 avrebbe potuto accompagnare il Vescovo a Don, in Val di Non, dove questi si recava per un po' di vacanza. Preferì partire con i profughi di Trento, insieme con il collega don Giuseppe Degasperi, il sabato 3 luglio 1915, destinazione Olmütz in Moravia. Trovò una sistemazione personale in un solitario convento delle suore Norbertine vicino al celeberrimo santuario di Heiligenberg (Suaty Kopecek), nelle vicinanze di Olmütz. 
Al santuario arrivavano i profughi del circondario, sempre più numerosi dopo che ebbero incontrato don Segata. Anche molti soldati trentini, acquartierati a Olmütz, cercavano di lui, prima di partire per il fronte. Don Segata non si risparmiò minimamente fin dai primi mesi, sempre presente disponibile nella sua stanzetta a piano terra, ad accogliere chiunque, ad ascoltare ogni bisogno, ogni penitente, a consigliare ed assolvere la sua gente. Parlava e parlava per diverse ore al giorno. 
Dopo il quinto mese avvertì che la sua voce si incrinava, affaticata. Gli doleva la gola. I medici di Olmütz diagnosticarono un tumore maligno. Solo un'immediata operazione poteva prolungargli la vita; ma con l'intervento chirurgico avrebbe perso la voce e avrebbe dovuto nutrirsi con una cannuccia. Don Segata capì la gravità del dramma che gli toccava, rifletté sulle conseguenze dell'intervento chirurgico e confidò ad alcuni confratelli: «A che vivere più a lungo, quando non posso vivere come prete?». 
Rifiutò l'intervento e continuò a dire la messa e a predicare nel Santuario, a dare comunicazioni e istruzioni ai profughi finché ebbe un filo di voce. 
Negli ultimi tre mesi dovette nutrirsi solo di liquidi, si indebolì molto e non fu più capace di entrare nel Santuario. Cominciò a dire la messa nella cappella del convento, oggetto delle cure più premurose da parte delle suore. 
Venne il giorno in cui per l'estrema debolezza non fu più in grado nemmeno di alzarsi. Per un mese, ogni mattino gli venne portata la Santa Comunione. Fu questo il mese che documentò di che tempra fosse fatto don Segata, e svelò tutta la bellezza e la grandezza della sua anima, e la qualità della sua opera tra i profughi. Venivano tutti i giorni, singolarmente o a gruppi sotto la finestra della sua stanza, chiedevano se migliorasse, se c'era speranza di guarigione. Alcuni ricevevano il permesso di fargli visita, e gli portavano fiori. Don Segata ringraziava con quel sorriso di simpatia che gli era naturale, su un volto orribilmente dimagrito e con la mano stanca. Li faceva avvicinare al capezzale e chiedeva loro, con un filo di voce, come stessero le loro famiglie, se il figliolo o il marito avesse scritto dal fronte, se avessero ricevuto la biancheria e le scarpe, se trovassero da comperare patate o polenta, che notizie avessero della patria lontana. Desiderava che parlassero anche tra loro, chè lui li ascoltava volentieri. 
Dal letto impartì ancora l'assoluzione a vecchi, donne e ragazzi che chiedevano di confessarsi da lui. Quando avvertì che l'ora della fine si avvicinava, pregò un confratello di leggergli dal rituale le preghiere dell'agonia. Su un pezzetto di carta scrisse per il suo funerale: «Prego il colore violetto!». Si spense la mattina del 25 aprile. Attorno alla sua bara si raccolsero tutti i «Flüchtlingsseelsorger», tutti i «curati» dei profughi della Moravia. Con la gran folla dei nostri emigrati, dopo un cammino anche di 4-5 ore, c'erano tedeschi e moravi venuti ad esprimere il loro cordoglio e la loro ammirazione per quel prete che per soccorrere meglio la sua gente si era perfino premurato di apprendere la lingua ceca. Ai funerali, celebrati dal prevosto del Santuario, intervennero i due colleghi d'insegnamento al Collegio Vescovile, don Giuseppe Degasperi e don Carlo Sonn, il Presidente del Comitato Centrale dei profughi a Vienna, don Germano Dalpiaz con l'onorevole Alcide De Gasperi, ex alunno del professor Segata. Il discorso funebre fu detto parte in italiano e parte in boemo da don Oreste Rauzi, cooperatore dei profughi di Levico e futuro Vescovo Ausiliare di Trento. 
Una signora del posto offrì la tomba di famiglia come asilo provvisorio alla salma di don Segata. I profughi di Heiligenberg, per testimoniare anche in patria i sentimenti di riconoscenza verso il prof. don Segata, per le infaticabili cure ricevute, inviarono un' offerta all'Opera Serafica degli orfanelli di Cognola. (Continua)



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