Annuario del collegio Arcivescovile 1991-1992, n. 58, pp. 33-52
La partenza
Nel maggio del 1915 la dichiarazione di guerra all'Austria da parte del Governo italiano era nell'aria. In quel momento l'esercito austriaco era impegnatissimo sul confine russo e su quello serbo. Nel Trentino il Comando militare austriaco aveva studiato e preparato una linea di difesa su posizioni arretrate dall'usuale confine, ma ritenute idonee a sostenere e contenere, inizialmente anche con poche forze, l'urto offensivo dell'esercito italiano.
Nella notte dal 23 al 24 maggio, lungo il fronte di 550 km, dallo Stelvio al Mare Adriatico, l'artiglieria italiana sparò le prime cannonate dando inizio al grande conflitto. All'opinione pubblica trentina la guerra dell'Italia all'Austria fu presentata dall'autorità civile e militare come un vile tradimento, un vergognoso atto di slealtà verso gli alleati tedeschi in un'ora difficile della loro storia, un'opera diabolica della massoneria occidentale contro la cattolica Austria.
Per le popolazioni trentine in prossimità del fronte il primo doloroso atto della grande tragedia ebbe luogo un paio di giorni prima con l'ordinanza immediata e perentoria dell'evacuazione. Si temeva, in caso di guerra, un'avanzata rapida delle truppe italiane e, pertanto, si impose alla popolazione di abbandonare, in tutta fretta le zone minacciate.
In ordine di tempo, la prima ingiunzione di partire venne data dall'Imperial Regio Capitano Distrettuale di Riva del Garda il 20 maggio 1915. A mezzo dei gendarmi locali, dei capocomuni e con avvisi affissi alle cantonate delle strade, si avvertiva la popolazione di Riva, Linfano, Torbole, Nago e Varone, di evacuare entro il 2 maggio, cioè entro il giorno dopo. La gente era avvisata di recarsi alla stazione di Riva portando con sé viveri per cinque giorni, i documenti personali, una coperta di lana, posate con un piatto, un bagaglio non eccedente il peso di 10-15 chilogrammi. Si dovevano lasciare liberi gli animali da cortile, aprendo pollai e conigliere. Il bestiame grosso, bovini ed equini, capre e pecore, erano da condursi sulla piazza di Riva e da consegnarsi ai gendarmi che avrebbero rilasciato una ricevuta. Se questi non erano presenti, le bestie si dovevano lasciare libere sui campi e prati vicini con l'indirizzo del proprietario legato alle corna o al collo.
Si può ben immaginare la disperazione della gente, formata, per lo più, da donne, vecchi e bambini, poiché gli uomini abili dai 20 ai 42 anni erano tutti assenti, mobilitati già nell'agosto del 1914 e avviati sul fronte galiziano contro la Russia.
Furono ore di dolore e di angoscia, tra pianti, imprecazioni e urla. C'erano gli ammalati da trasportare e anche i propri morti da salutare, con una visita al cimitero e alla chiesa. Al sindaco e alle persone delegate per il controllo del paese e per la tutela dei beni delle famiglie, si consegnavano le chiavi delle case. Ci sarà bisogno di chiedere indumenti e oggetti vari, quando si sarà giunti a destinazione. Soprattutto si spera di ritrovare ciò che affannosamente si è nascosto negli avvolti o nelle cantine: i rami, la biancheria, i mobili migliori.
Nella mattinata del 21 maggio una lunga processione di gente giunge a Riva e si reca alla stazione, in attesa del treno. Per le strade della cittadina si vedono cani, gatti, perfino capre, arrivati lì al seguito delle famiglie. Appena il treno parte con i profughi, i gendarmi uccidono i poveri animali a revolverate.
Il giorno 22 maggio sono di turno la Valle di Cresta e la Valle di Ledro. Dalla prima scendono verso Loppio e Mori, diretti ad Isera e Villa Lagarina, i carri trainati da buoi e da mucche, carichi di ammalati e di impotenti. Il resto della popolazione si avvia a piedi, in obbedienza all'ordine ricevuto, verso passo Bordala e Castellano. Si attendeva in quei giorni alla coltura dei bachi da seta, che si dovettero buttare via negli orti.
Si parte verso l'ignoto, sulla via dell'esilio. Alla gente si ripete che l'assenza non durerà a lungo, al massimo tre mesi. Si prolungherà, invece, per quaranta mesi carichi di rinunce, di sofferenze, di profonde tristezze e di accorata nostalgia per la casa lontana; e molti degli esuli non torneranno.
In Valle di Ledro l'ordine di abbandonare i paesi arrivò nel pomeriggio del 22 maggio, vigilia di Pentecoste. La popolazione della parte bassa della Valle, da Molina a Prè e Pregasina, dovrà raggiungere la mattina del 24 maggio il treno a Riva, mezz'ora prima delle ore nove; quella della parte alta, da Mezzolago a Lenzumo, scenderà più tardi, per raggiungere il treno delle una pomeridiane. Partiranno portando zaini, borse, sacche, dove hanno messo pane, galline bollite o arrostite, o ciò che premeva loro, sollecitati e spinti dagli uomini della gendarmeria, correttissimi fino al giorno prima verso la gente, diventati ora, all'improvviso, severi e minacciato.
Il 24 maggio veniva emanato l'ordine di evacuazione per la città di Rovereto. Nella memorialistica che ci è pervenuta e nel racconto dei protagonisti, è possibile rivivere, lo sconcerto della città all'ordine di partire in fretta e furia. L'esodo è quasi totale. Una processione interminabile di donne, vecchi e bambini, tutti carichi di vesti involti e sacchi, arriva alla stazione, da dove partono lunghi treni con trenta e più carrozzoni. Si cerca anzitutto di sistemare alla meglio gli ammalati, destinati agli ospedali di Innsbruck e di Salisburgo. Il viaggio di 20-22 ore sarà per loro un calvario. Il primo treno partì con 1200 persone il 23 maggio e altri due si mossero il 24. Unica nota di colore è data dalle orfanelle roveretane, accompagnate da alcune suore di Maria Bambina. Le orfanelle, eccitate, emozionate, ignare del loro destino, ma quasi felici di andare verso un mondo nuovo, incontro ad un'avventura, quando il treno si muove, si agganciano ai finestrini e osservano incuriosite, tra commenti allegri, i bei paesaggi che sfilano via veloci.
Da Arco, il 24 maggio, partono dapprima i 32 orfanelli della Provvidenza, di età tra i 3 e 10 anni, sopra tre carri tirati da un bue, un mulo e un asinello. Sono accompagnati da due suore e da un sacerdote. La strada verso Trento è lunga, pesante e infangata. Ad un certo punto l'asinello stramazza in terra sfinito, il mulo si ostina a non andare avanti, il carro del bue perde una ruota. Fortunatamente c'è ancora nelle campagne della zona qualche anima buona che accorre e aiuta. Quando finalmente il convoglio arriva in piazza Dante, davanti alla stazione, sembra una carovana di zingari, con tutti i bambini che piangono e strillano.
Dopo gli orfanelli, partono da Arco altre due carovane: la prima di quattro carri e la seconda di undici, tirati da buoi, con novanta poveri vecchi e otto dementi dell'ospedale-ricovero. Sono assistiti da quattro suore di Maria Bambina e dal giovane cooperatore don Bartolomeo Fioriolli.
Trento fu dichiarata dal Comando Militare zona di guerra e fortezza. Le famiglie che non possono garantire di aver provviste per tre mesi devono partire. Apposite commissioni del Comando di Fortezza sono incaricate delle verifiche: solo le famiglie che dispongono per persona di 60 kg di Farina e di altri 30 kg di articoli alimentari vari ricevono il permesso di restare. Il 25 maggio 1915 partono per la Boemia le famiglie delle parrocchie di S. Maria Maggiore, Piedicastello e Vela. Un grande numero di cittadini le accompagna alla stazione; un apposito comitato, costituitosi in tutta fretta, porta viveri e bevande e rivolge parole di incoraggiamento ai più desolati. Il 26 maggio partono le famiglie più povere della parrocchia del Duomo e il 27, con due lunghissimi treni, quelle di San Pietro. Il 28 vengono sfollati gli abitanti di Povo, Villazzano e Valsorda, con una tradotta che partì da Mattarello con 1.352 profughi. Seguirono altri treni con profughi di Romagnano, Ravina e Gardolo, circa 6.000. Da Trento città e dai sobborghi furono allontanate complessivamente 27.256 persone. Ad ogni partenza di questi lunghi, tristi convogli anche il Vescovo di Trento, mons. Celestino Endrici, si recava alla stazione a salutare i profughi.
Dal 28 maggio in poi per più giorni, quattro treni di oltre 30 vagoni partirono dal Trentino ogni 24 ore con destinazione Salisburgo, carichi di profughi che provenivano dai paesi vicini a Rovereto (Besagno, Mori, Sacco, Isera, Terragnolo), dall'altopiano di Lavarone e dalla Val d'Astico, dalla Valsugana e dalla Valle del Sarca (Dro, Drena e Pietramurata).
Il 24 e 25 agosto avviene l'esodo della popolazione di Vermiglio. Dalle montagne del Tonale qualche bomba dell'artiglieria italiana cominciò a battere il retroterra austriaco e Vermiglio si trovò a correre seri rischi. Fu decisa l'evacuazione. Sui carri si fanno partire gli ammalati e il resto degli abitanti, circa mille persone, si avvia a piedi fino a Male, commiserati e salutati nel pianto dalla gente dei paesi
della Valle di Sole che accorre sulla strada e offre quello che ha, pane, vino e frutta. A Malé salgono tutti sulla tramvia che li porta a San Michele, dove vengono trasbordati sui treni che partono per oltre Brennero. Il l° settembre parte ancora da Pergine un treno con 700 profughi della Valsugana. Ultimissimi a sfollare saranno quelli della Vallarsa nella primavera del 1916.
Complessivamente abbandonarono il Tirolo Italiano circa 75.000 profughi: 13000 per le valli settentrionali del Trentino e del Tirolo; 16.400 per la Boemia; 19.600 per la Moravia; 13.900 per l'Austria Inferiore; 12.300 per l'Austria Superiore.
Salisburgo, posto come è nel cuore del grande impero asburgico, divenne, per gli esuli trentini, il principale centro di smistamento. Qui successe di tutto: talvolta i profughi dovettero attendere ore, perfino giorni, sotto le tettoie di una mattonaia, prima che arrivassero i treni destinati a trasportarli in Boemia, in Moravia o verso l'Austria Superiore e Inferiore. Qualche volta le partenze furono così improvvise e disordinate, che costrinsero molte famiglie a dividersi e a raggiungere destinazioni diverse.
I lunghi treni che provenivano dal Sud non portavano solo profughi: nei primi vagoni c'erano spesso compagnie di giovani soldati trentini, avviati in Galizia a riempire i vuoti creatisi nei battaglioni dei Cacciatori e degli Alpini, dopo le feroci offensive contro i Russi. Guardavano rattristati la nostra gente nelle stazioni di smistamento, la vedevano scendere in disordine dalle carrozze per soddisfare bisogni personali o avviarsi dietro guardie, che urlavano e gesticolavano, verso altri treni in vista. Soprattutto le povere donne attiravano la loro attenzione, tutte cariche di fardelli, preoccupate di tener vicino i bambini che piangevano e chiedevano pane e acqua e di sorreggere qualche vecchio nonno. Vedevano gendarmi, «quei briganti in montura che accompagnavano fuggiaschi», come li chiama uno di loro nelle sue memorie1, spingere brutalmente quella gente nei vagoni a urti e pedate, perfino a frustate. Scene da far pietà ai sassi! Non frequenti, ma nemmeno tanto rare!
Una volta, alla stazione di Lambach vedere ciò che avveniva fuori con i profughi della Valle di Ledro, i nostri soldati cominciarono a urlare dai vagoni sbarrati. Erano impossibilitati ad aiutare ma avevano tanta rabbia dentro. Uno di loro, pensando di mandare un saluto e un incoraggiamento ai profughi, intonò quel canto che allora era molto familiare nei paesi del Trentino: «Va pensiero sull'ali dorate». Tutti i compagni si unirono con voce forte, ma «non si giunse nemmeno a metà della canzone che la massima parte della compagnia aveva le lacrime agli occhi». (Continua)
1.Bernardi Daniele, Avventura di una soldato, maggio 1915, Archivio della scrittura popolare presso il museo del Risorgimento e della lotta per la libertà, Trento.
1.Bernardi Daniele, Avventura di una soldato, maggio 1915, Archivio della scrittura popolare presso il museo del Risorgimento e della lotta per la libertà, Trento.
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