martedì 29 gennaio 2013

Durante la guerra 1939-1945 - Confidenze di un amico

Strenna Trentina, 1988, anno 67, pp. 81-83


L'avevo osservato ancora nei primi giorni di scuola quando, all'inizio del semestre estivo, alla fine del febbraio 1946, eravamo seduti nella grande aula a semicerchio dell'Università di Zurigo per il corso di lingua gotica. Arrivava puntuale, trascinandosi un po' la gamba destra, con sorpresa di chi lo guardava, perché aveva un fisico d'atleta, ben proporzionato, d'una eleganza carica di energia. Era il tipico giovane del Nord, biondo di capelli, dal colorito sano, con due occhi fondi, azzurri e sfavillanti.
Monsignor Lorenzo Dalponte (annuario del collegio
arcivescovile 1970/1971)
Dopo un po' di tempo, quando ci si incontrava sul corridoio, ci salutavamo con un cordiale "Guten Tag", quasi da amici. E divenimmo effettivamente amici, perché tutti e due stranieri, io del Sud e lui del Nord, da Kiel, trovammo facili argomenti di conversazione sulle nostre terre d'origine e soprattutto sui nostri piani di studio. Era un'amicizia alquanto rispettosa del nostro passato, lontana dalle curiosità salottiere, vogliosa di indagare sulle vicende personali, e si nutriva di conversazioni sul presente, sulle difficoltà dello studio e sulle prospettive di lavoro che ci si offrivano nella difficile situazione del dopoguerra. 
Era venuto all'Universita di Zurigo, con una borsa di studio della Croce Rossa lnternazionale, come invalido di guerra e voleva laurearsi in germanistica per insegnare in qualche liceo della sua terra. Lo invidiavo molto, perché lui, di lingua materna tedesca, non aveva certo le difficoltà che aveva il sottoscritto nel seguire i corsi universitari. In ogni lezione afferrava rapidamente quanto veniva spiegato, anzi, nei lavori di seminario, che poco dopo iniziammo, egli si distinse subito tra tutti, per la sicurezza dell'eloquio, la facilità d'intuizione e una certa maturità di pensiero che pareva in lui innata. 
Cinque anni di guerra e quasi due di ospedale lo avevano maturato sotto tanti aspetti. Lo ripeteva talvolta, d'aver visto e sofferto molto e soprattutto riflettuto a lungo e ripetutamente sui tragici avvenimenti della vita. L'ultimo giorno di scuola, alla vigilia delle vacanze estive, prima di separarci, gli chiesi che programma avesse, se sarebbe tornato a Kiel. Scrollò dapprima la testa, in senso di diniego, poi, senza alcun tono di ostentazione, mi spiegò che sarebbe restato a Zurigo durante il periodo estivo e che aveva già trovato lavoro presso un'impresa edile: "Devo guadagnarmi un po' di denaro", mi disse sorridendo. M'era facile capire questo desiderio, perché io stesso come straniero, da una patria in rovina, anche nella moneta, trovavo difficoltà a sostenere le spese dello studio. Solo che non riuscivo a capacitarmi come lui potesse affrontare il lavoro di manovalanza in un'impresa edile, per una ragione che mi aveva confidato lui stesso: quando una domenica pomeriggio eravamo andati a passeggiare sul lungo lago. Era uno splendido meriggio di fine marzo che annunciava imminente la primavera. Lui m'ha raccontato del servizio militare e in particolare del grave ferimento subito nel periodo della ritirata dal fronte russo, nel 1944, in Ungheria. Una granata di carro armato lo aveva abbattuto nella trincea ferendolo in più parti, spezzandogli le ossa d'un braccio e d'una gamba e asportandogli parti di tre costole, con una profonda ferita al polmone destro. Un soldato russo, ch'era balzato nella trincea, lo aveva colpito sul volto con la baionetta, rompendogli la mascella. A salvarlo da sicura morte era stato un generoso e bravo medico militare russo che s'era chinato su di lui, ufficiale, e trovandolo vivo, lo aveva portato all'ospedale da campo, dove ebbe alla bell'e meglio le prime cure. Dopo la cessazione delle ostilità, la Croce Rossa Internazionale lo aveva prelevato da un lazzaretto militare di Budapest (Ungheria) e trasportato nuovamente in Germania, in un ospedale più attrezzato per le cure di grandi invalidi. Aveva terminato il racconto, aggiungendo che teneva ancora due chiodi nelle ossa e che il polmone ferito di quando in quando si faceva dolorosamente sentire. 
Adesso che mi parlava di lavoro, non potei far a meno di ricordargli che nelle sue condizioni fisiche, il lavoro di manovale era un mezzo suicidio! 
***
Da quell'incontro erano passate forse tre settimane, quando mi sentii chiamare al telefono dalla voce concitata di una donna che mi pregava di voler raggiungere subito il mio amico nella pensione dove viveva, nella parte vecchia di Zurigo. Era un modesto edificio segnato dal tempo e abitato da lavoratori stranieri. 
"Sta molto male", mi disse la donna quando mi presentai. "E tornato dal lavoro stravolto, e... ora sputa sangue". Lo trovai sul letto, con gli occhi chiusi, con un asciugamano nella bocca, macchiato di sangue. 
Mi guardò con un cenno di saluto e poi si piegò su se stesso, in preda a dolori lancinanti, tra singulti e rantoli e colpi di tosse che ogni volta segnavano di rosso l'asciugamano che si premeva sulla bocca.
Cercai per telefono un medico, che conoscevo, anche se lui non voleva e mentre lo attendevo, spaventatissimo, gli asciugavo la fronte e gli tenevo una mano, che negli spasimi di dolore, aveva battuto più volte contro la parete. Quando il male lo assaliva, me la stringeva così forte da farmi male anche a me! 
II medico arrivato poco dopo, ascoltò la mia breve narrazione mentre gli controllava il polso. Gli diede subito un'iniezione che parve calmarlo alquanto ma ordinò il trasporto immediato all'ospedale.
***
E all'ospedale andai a trovarlo ogni giorno. Dopo una settimana di cure migliorò assai ed ebbe più voglia di chiacchierare. Fu allora che mi lasciai sfuggire: "...te l'avevo detto che era un mezzo suicidio! Che bisogno c'era di ammazzarti con le tue mani?" 
Allora mi rivelò un capitolo della sua vita passata. Quando era partito per il fronte russo, alla stazione, a salutarlo, c'era anche la sua ragazza. Voleva restituirgli l'anello del fidanzamento perché fosse più libero e senza impegni in quelle tremende vicende. Ma lui le aveva risposto: "No, tienilo! Se torno, ti prometto che ti riporterò il tuo, d'oro fino, come me l'hai dato".
Le lettere della ragazza lo avevano raggiunto quasi dappertutto, in quell'inferno di ferro e di fuoco, a ricordargli che la vita, dopo la guerra, sarebbe potuta tornare bella. Quando ferito in Ungheria s'era accorto che dei soldati russi stavano levando al prigionieri orologi, portafogli e ogni gioiello, egli aveva nascosto l'anello in bocca, nella ferita della mascella; e così se l'era salvato. Rientrato in patria, ridotto ad un rottame, cercò dei genitori: erano scomparsi sotto le macerie di un bombardamento. Ebbe la grazia di ritrovare la ragazza e di rivederla in un giorno di visite, accanto al capezzale. Ora fu lui a dirle: “Sei stata un angelo per me! Ma ora mi devi dimenticare! vedi come sono ridotto, non sarei capace di far nulla! Riprendi il tuo anello! Sappi però che te lo restituisco, con somma gratitudine, d'oro fino, senza macchia come me l'hai dato!". 
La ragazza non lo aveva accettato. Anzi, gli fu talmente vicina con il suo affetto, con il suo aiuto e il suo incoraggiamento, ch'egli aveva sentito rinascere in sé un nuovo, prepotente bisogno di vivere, di fare qualche cosa, di qualificarsi. Con una volontà di ferro, facendo ogni giorno, per mesi, una dura ginnastica, era andato irrobustendosi e raddrizzandosi. Aveva ripreso lo studio a Kiel e anche vinto una borsa di studio per l'Università di Zurigo. Prima di partire s'era sposato con quella ragazza. 
Ascoltai con sorpresa e commozione questa dolorosa e stupenda storia. "Vedi", mi disse abbassando gli occhi. 
"Mia moglie mi desidera a casa a settembre quando nascerà il nostro bambino e io volevo guadagnare durante l'estate un po' di denaro per acquistarle un regalo. Non le ho mai donato nulla finora". E mi fece vedere la foto della sposa. 
La guardai, lei e poi lui, con ammirazione. Ed ebbi anche immediato un pensiero per il nascituro: un bambino sicuramente fortunato che non avrebbe potuto trovare al mondo due genitori migliori! 
Lorenzo Dalponte 

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