martedì 26 marzo 2013

Sacerdoti del collegio vittime della guerra


Don Beniamino Tarolli   
Il professor don Beniamino Tarolli (1876-1944) nacque a Castel Condino, fu consacrato sacerdote nel 1899, si laureò in Lettere classiche e italiane all'Università di Innsbruck nel 1903 e passò il resto della sua vita come insegnante presso il Collegio Vescovile. 
Quando nel maggio del 1944 le sirene suonarono l'allarme, don Beniamino non si mosse dalla sua stanza per andare nel rifugio antiaereo ricavato nei sotterranei del Seminario Maggiore. Fu trovato quattro giorni dopo sotto le macerie, il corpo spezzato e il cranio infranto dalle travature cadute, con la corona del rosario in mano. 
Don Beniamino Tarolli
Fu una perdita gravissima per l'Istituto perché don Tarolli non fu solo un insegnante che veniva a mancare, ma fu un grande maestro, un vero educatore quale la scuola raramente produce: una di quelle figure che restano nel cuore degli studenti, di tutti gli studenti, circondata da un alone di simpatia e di venerazione. Per molti anni, per decenni si può dire, gli ex alunni ad ogni incontro parlavano di lui. La sua memoria fu una benedizione. 
Così lo ricorda uno scolaro che lo ebbe insegnante negli anni del Ginnasio nel 1920: «Sono passati venticinque anni dal primo giorno che lo incontrai. Lo ebbi per meno di due anni insegnante di italiano, latino e greco. Ma la sua figura è sempre restata e resterà profondamente impressa nell'animo mio. Aveva un'esteriorità piuttosto severa, apparentemente fredda. Era di un'esattezza tale da rasentare quasi la pedanteria. Le sue interrogazioni parevano implacabili e non lasciavano la possibilità di una preparazione saltuaria. Non ritardava mai d'un minuto nell'arrivare in classe e, al suono del campanello, spezzava a metà una frase e chiudeva immediatamente il libro. Era inesorabile nello stroncare le facili gonfiature retoriche ("già, per voi sono tutti grandi, grandissimi poeti, scrittori...") Esigeva da noi, poveri studentelli, una purezza di lingua degna della Crusca (guai a chi si fosse lasciato scappare, senza neanche magari saperlo, un qualche francesismo!). Ma questa era la corteccia sotto la quale si sentiva vibrare un animo profondamente tenero, uno spirito molto largo e assai comprensivo. Tutti noi, giovani studenti della quarta ginnasiale, gli eravamo profondamente attaccati, perché al di là del professore dagli occhiali cerchiati d'oro (noi, maligni, benevolmente autorizzati da lui, l'avevamo battezzato "il lungo e magro professor di greco", da una poesia che egli stesso ci aveva fatto studiare) vedevamo, sentivamo il padre, l'educatore. Sapeva dare un'anima all'insegnamento, sapeva indirizzarlo non solo all'arricchimento dell'intelligenza, ma anche alla formazione del sentimento e all'irrobustimento della volontà. Era, per quanto umile e schivo, un vero educatore, sapiente e pio. 
Naturalmente era noto che gli alunni uscivano stanchi dalle sue lezioni, ma sempre arricchiti e aiutati da un pensiero finale, di sintesi, che raccoglieva l'argomento trattato in una massima sapienziale. Era temuto, stimato, soprattutto amato, perché gli alunni sentivano di avere in lui una guida che li portava a scoprire se stessi, le loro intime energie, il senso della vita. Avevano scoperto e capito il suo cuore e la sua anima e ne erano affascinati. 
Il principio base della sua azione educativa era nella forza di convinzione con cui frequentemente richiamava il carme di Alessandro Manzoni: In morte di Carlo Imbonati: «... dalla meta mai torcer gli occhi/ il santo vero mai non tradir/ non proferir mai verbo/ che plauda al vizio o la virtù derida''. Anche i colleghi di insegnamento nutrivano per don Tarolli rispetto e ammirazione. Era tra loro piuttosto solitario, parlava pochissimo. Aveva abitudini austere di dedizione ferrea al dovere, all'orario, alla preghiera. Pure con loro non trattava mai se non di argomenti elevati, nutriti da una vastissima cultura ed espressi con sicurezza di giudizio. 
Era un uomo di preghiera. Ad un'ora precisa scendeva nella cappella del collegio o passeggiava nei piazzali leggendo devotamente il breviario. Aveva abituato gli alunni a pregare insieme per la salvezza della patria e per la pace dei suoi caduti, quando alle dieci suonava la sirena della Michelin per l'avvicendamento degli operai. 
Amava «la patria italiana» d'un amore purissimo, sincero, privo di retorica. Si era nutrito della cultura italiana, di quella autentica: «Se mi aprile il cuore - aveva più volte detto - troverete scritta una parola: Italia!». La sorte volle che gli operai, scavando fra le macerie trovassero vicino alla sua salma la bandiera italiana dell'Istituto. Non avendo lì per li una tela in cui avvolgere le sue spoglie, lo raccolsero nel tricolore e lo deposero nella bara. 

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