Annuario del collegio arcivescovile di Trento 1994/1995, n. 61, pp. 76-79
La mamma aveva scodellato la minestra nel piatto del marito e dei tre figli, un maschietto e due bambine, augurando loro buon appetito: «Grazie», risposero in coro ed ognuno afferrò lesto il cucchiaio chinandosi sul piatto e cominciando a mangiare in assoluto silenzio come pretendeva il capofamiglia.
«Papà, papà», sbottò all'improvviso il piccolo, ma non aveva terminato di dire la seconda parola che già tuonava minacciosa la voce del padre: «Silenzio mentre si mangia!». Il piccolo tornò a piegarsi intimidito sul piatto e non fiatò oltre. Quando ebbero finito, mentre la mamma levava la zuppiera, il padre intervenne meno imperioso e chiese al figlio: «Cosa c'è? Parla, ora!». «Adesso non c'è più, — rispose il ragazzino — ma prima c'era: c'era una mosca nella tua minestra».
Se il fatto non fosse vero, sarebbe bene inventato e dovrebbe invogliare anche i genitori più esigenti ad ascoltare i loro bambini quando si trovano seduti a tavola. A tavola ci si mette insieme un paio di volte al giorno, sul mezzodì e alla sera, per consumare un cibo caldo, di solito ben curato e servito con affetto. Si soddisfa un bisogno naturale, comune a grandi e piccoli, perché è dal cibo che viene l'energia necessaria alla vita e all'azione.
Ma non si tratta solo di un ristoro fisico indispensabile. A tavola si favoriscono, contemporaneamente, momenti piacevoli e graditi, in cui l'appetito e la presenza di persone uniche rendono più gustoso quanto si consuma. Di fatto c'è meno soddisfazione a consumare un pasto da soli che in compagnia. È sufficiente il consueto augurio di buon appetito che si è soliti dare e ricevere a mensa, per rendere diverso l'atto della refezione, soprattutto si crea la premessa ideale per un colloquio schietto ed amichevole.
E che l'incontro a tavola sia un'occasione ideale per un dialogo d'amicizia, lo dimostrano certe esigenze di lavoro e abitudini acquisite che sollecitano a non lasciar isolati questi incontri ma a renderli il più possibile frequenti, perché, come diceva il grande filosofo greco Aristotele, «solo consumando un moggio di sale si creano le profonde amicizie».
Era usanza degli antichi mettere nel centro della mensa un piatto di sale, nel quale gli invitati intingevano i pezzi di pane e di carne di cui si cibavano. Per consumare un moggio di sale, bisognava dunque incontrarsi ripetutamente, dando così spazio e tempo per colloqui improntati a cordialità e amicizia. Anche ai tempi nostri, in certe regioni della Francia, quando in una famiglia si invitano dei conoscenti a pranzo, si suol far scomparire dalla sala ogni orologio, perché nessuno badi al tempo o si preoccupi di qualche impegno, ma dia assoluta importanza all'incontro e alla conversazione.
Ovviamente in famiglia non c'è bisogno di creare amicizie: per la continuità dei rapporti esse sono presenti e vive. Ma come per i fiori più belli, perché restino tali e adornino la casa, ci vuole attenzione e cura, così gli affetti familiari, anche se sono sentimenti naturali, non restano istintivi, sono esigenti, richiedono nutrimento e sollecite premure, hanno bisogno di gesti significativi e convinti. Per questo l'ora del pranzo è il momento provvidenziale, che riunisce tutti i familiari per un atto comune di alimentazione e per una conversazione d'obbligo.
A proposito delle conversazioni della famiglia riunita a tavola si sono fatte numerose inchieste, dalle quali risulta che, di regola, il perno del discorrere è costituito dai genitori. Generalmente è il capofamiglia che guida il dialogo, anche perché ritiene suo dovere informarsi sugli avvenimenti della giornata. Pare tuttavia che le mamme sappiano dialogare meglio dei papà e siano più abili nell'intavolare una conversazione ampia, ricca di spunti, perché sanno rivolgersi con assoluta imparzialità ai figli e alle figlie, mentre il padre propende a dialogare di più con i figli maschi.
Dalle inchieste fatte, il primogenito tra i figli appare come il più autorevole ed il più ciarliero. Segue a ruota il più piccolo, che difende lo spazio della sua presenza e vorrebbe essere lui il centro degli interessi familiari, mentre i figli di mezzo hanno un ruolo secondario e sono meno loquaci. Risulta inoltre, stranamente, che nelle famiglie numerose c'è la tendenza a parlare meno, poiché il dialogo facilmente si surriscalda e diventa caotico e allora si impongono spazi di silenzio.
È opinione comune di chi ha studiato i dati di queste inchieste che la conversazione a tavola, per riuscire bene, abbisogna da parte dei genitori di una discreta abilità di moderatori e di una capacità di scelta negli argomenti. Solo se la conversazione è bene diretta, diventa scuola ed incide profondamente sul comportamento dei figli. Si è constatato che i più piccoli imparano più facilmente per imitazione che sotto la sferza di continui ammonimenti e brontolamenti e che pertanto l'insegnamento indiretto incide di più. Non è fondata quindi la preoccupazione dei genitori di dover intervenire per ogni minima infrazione commessa a tavola, perché altrimenti i figli si comporterebbero fuori famiglia maleducatamente. Fuori, i figli fanno di solito bene quello che hanno visto fare bene in famiglia. Si ottiene cioè di più sotto l'aspetto educativo insegnando ad un bambino a togliere lui stesso il sudiciume causato che investendolo di improperi e castigandolo per il malanno.
Di norma, è meglio lasciare al dopopranzo o al dopocena la discussione di problemi familiari impegnativi. Il comune pasto deve trascorrere e scivolare via in un'atmosfera serena, in una conversazione piacevole e leggera, senza appesantirla di argomenti scabrosi che potrebbero «avvelenare» quello che si mangia o, per lo meno, «far perdere l'appetito».
Anche il modo di conversare è importante. I risultati migliori vengono ottenuti da quei genitori che sanno trattare i figlioli come gente adulta, che accettano di mettere a confronto i vari punti di vista con reciproco rispetto come si fa tra persone educate. Anche i piccolissimi recepiscono bene in famiglia un modo amabile e rispettoso di conversare, improntato alla comprensione e alla pazienza.
C'è però un inconveniente oggi che minaccia di compromettere il colloquio familiare: è la voce di un componente che diventa sempre più invadente, anche se non è della famiglia: la televisione. È una voce che va controllata, anzi, tranne in casi eccezionali, dovrebbe essere ridotta al silenzio durante i pasti. Se per la pessima abitudine di tenere l'apparecchio aperto questa voce prende il sopravvento, la domanda affettuosa, l'ascolto interessato, la risposta singolare, la cascatella delle risate di commento vengono perentoriamente bloccati. Quando comanda questa voce estranea e incontrollabile è la morte del dialogo. Se ne va anche l'attenzione alla bontà della pietanza e, meno che meno, ci si ricorda di dire grazie a chi l'ha preparata. Con ciò, anche la mensa più ricca e meglio imbandita perde in bellezza e calore: non c'è più famiglia, ed è anche peggio che all'albergo.
Lorenzo Dalponte
Nessun commento:
Posta un commento