Annuario del Collegio arcivescovile 1988-1989, n. 55, pp. 84-85
L'aula per le prove scritte era occupata e allora l'insegnante decise di tenere gli alunni in classe e di assegnare loro ugualmente alcune frasi di versione che ricapitolavano le ultime regole spiegate a scuola.
Distribuito il foglio con il testo in italiano, l'insegnante invitò gli alunni ad iniziare immediatamente il lavoro di traduzione; avrebbero poi in seguito copiato il testo sul quaderno.
La maggior parte, in assoluto silenzio, si mise al lavoro e pareva non trovasse il testo eccessivamente difficile perché cominciò ben presto a scrivere. Alcuni erano poi incerti, mordevano nervosamente la penna biro e non si decidevano a mettere nero su bianco. C'era anche chi guardava qua e là, torcendo bocca e naso o grattandosi la nuca, evidentemente bloccato dalle prime difficoltà. Non mancavano coloro che davano uno sguardo di sfuggita al compagno di banco che già scriveva, svelto, una parola dopo l'altra. Sapevano di commettere un'ombra di reato e, pertanto, alzavano ogni volta gli occhi verso l'insegnante per accertarsi se erano stati osservati o meno.
I più tenevano l'orologio sul tavolo e controllavano il tempo man mano che procedevano nella traduzione, non mancando di manifestare qualche gesto di stizza o di emettere un sospiro per il rapido passare dei minuti.
Il professore, fermo in un angolo, da una posizione alquanto strategica, teneva gli occhi fissi sulla scolaresca perché tutti si ricordassero che il lavoro di versione doveva essere personalissimo e che non si tolleravano forme di cooperazione o di mercato comune.
C'era un alunno nel quinto banco, verso la finestra, tutto rosso ormai nel volto, che si muoveva nervoso in qua e in là, ora sul testo da tradurre, ora sul quaderno. Passava più tempo sul testo che sul quaderno, segno evidente che si trovava angustiato da frequenti dubbi. Ad un dato momento abbassò la testa, per sbirciare dal basso, dietro le robuste spalle di chi gli stava davanti, il quaderno del compagno di banco. Chissà poi per quale attrazione magnetica parve avvertire su di sé l'occhio implacabile dell'insegnante. Alzò un po' la testa ed avendone incontrato immediatamente lo sguardo, imbarazzato più che mai e con una fiammata di rossore sul viso tornò a piegarsi sul suo quaderno.
Ma la situazione pareva disperata. Se non sbloccava quella maledetta costruzione, non c'era verso di andare avanti. Sempre con la testa china tentò ancora un paio di volte di scrutare il quaderno del compagno. Il che era troppo ormai! Allora l'insegnante si mosse dal suo angolo strategico e lentamente ma inesorabilmente si avvicinò al piccolo reo. Quando gli fu accanto, fu l'alunno stesso ad alzare due occhi imploranti. «È la terza volta che cerchi di copiare, e sai bene che non si può!», sentenziò il professore. Forse l'alunno si aspettava una sanzione maggiore, che gli venisse magari tolto il quaderno. Con occhio triste continuò a fissare il suo insegnante, mormorando poi sommessamente, con un'aria di sincerità disarmante: «Mi scusi!... ma lui scrive così male che non riesco a leggere nemmeno una parola!».
L'insegnante controllò a fatica uno sbotto di ilarità e ripeté all'alunno con cipiglio severo di usare la propria testa per il suo lavoro. Tornato al posto strategico guardò ancora quell'alunno in difficoltà, avvertendo per lui quasi un gocciolo di simpatia. Povero figliolo. Ora sa che copiare dal testo altrui è un reato di plagio.
Un altr'anno potrà copiare da due libri ed allora gli si dirà che ha fatto una ricerca. E quando negli anni prossimi saprà copiare da dieci libri, sarà anche lui... un professore come me!
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