Annuario del collegio arcivescovile di Trento 1987/1988, n. 54°, pp. 68-70
Mi trovavo a Roma per gli esami di concorso all'insegnamento della lingua tedesca nei licei scientifici e alla sera ero tornato a Villa Kirner a prendere visione dell'esito. Tirato un sospirone di sollievo per aver letto il mio nome tra i promossi, siccome dopo quei due o tre giorni di particolare tensione avvertivo una fame rabbiosa, decisi di prendere il Brenner Express delle ore ventitrè e di regalarmi, nel frattempo, una cenetta d'onore nella vicina Trastevere.
Alla stazione presi un supplemento per la prima classe perché sentivo addosso un sonno imperioso e speravo che lì, con i sedili a tre posti e più comodi e con meno ressa di gente, avrei forse trovato comoda occasione per dormire alquanto durante le lunghe ore notturne di viaggio. Stavo già per abbandonarmi in braccio a Morfeo quando mi scosse una voce sonora: "Reverendo, facciamo viaggio insieme? Dove va?". Ahi! Lo scocciatore era arrivato! Lo guardai, reprimendo un sentimento di stizzosa delusione, era un bell'uomo dalla faccia aperta e sorridente, su due spalle robuste: "Vado a Trento! E Voi?" — "Anch'io vado a Trento...!". Addio sonno, pensai, e dovetti rassegnarmi a mettermi più composto ed accettare una conversazione che durò senza volerlo tutto il viaggio. Dalle prime battute di approccio incerto, dato che ognuno di noi due era un illustre sconosciuto per l'altro, il discorso si fece più ricco e confidenziale. Furono toccate varie tematiche, dal mondo commerciale a quello scolastico, a quello politico, con punti di vista alquanto divergenti ma rispettosi, che sfociavano, alla fine, in affermazioni generiche condivise da ambe le parti.
* * *
"C'è una cosa nella mia vita", disse il signor B. ad un dato momento, «che voglio confidarle. lo sono un credente convinto e praticante fin dai primi anni della mia fanciullezza. Ho avuto una madre meravigliosa: se partivo per un viaggio d'affari mi raccomandava caldamente di non dimenticarmi mai di dire tre "Ave Maria" alla Ma-donna. Quando andai in guerra, mi ripeteva in ogni lettera la stessa raccomandazione ed io ho recitato ogni giorno questa preghiera. Ne ho viste cose tristi in guerra, anche troppe, fino alla nausea. Ero portaferiti con i Kaiserjager e quando mi toccava recuperare i caduti, se non c'era il cappellano militare, facevo io il segno di croce sulla fronte a quei poveri disgraziati, perché non volevo che venissero seppelliti senza un segno di fede. Dopo le sanguinose battaglie di Cima Dodici ero talmente nauseato dal vedere santi feriti e sentire quelle urla e seppellire tutti quei morti, che feci domanda due volte al comando di andare in linea. Quando fu accolta, mi spedirono con una compagnia di nuova formazione sul fronte rumeno, perché non volevano che noi trentini fossimo impegnati sul fronte italiano.
Arrivato là, fui destinato con un certo D. della Valle di Fiamme alla guardia di un ponte ferroviario, io sotto, accanto al pilastro, vicino al torrente, e lui sopra, a passeggiare avanti e indietro. C'era pericolo di partigiani e ci raccomandavano di essere vigilanti al massimo, sempre all'erta e ai nostri posti. Ma le notti erano lunghe e tranquille e allora io venivo su a fare due chiacchiere con D.. Una notte però fummo sorpresi dal capitano che s'avvicinò come un'ombra mentre stavamo fumando tranquillamente una cicca appoggiati al parapetto del ponte. Intuimmo la gravità dell'infrazione al regolamento: era guerra ed in guerra non si scherza.
Il D. abbassò di scatto l'arma dicendomi: "Io lo ammazzo, lo ammazzo, altrimenti è finita per noi!" — "No, no, non farlo, non puoi farlo!" gli ripetei tutto eccitato. Ma lui voleva farlo e fu proprio perché insistetti ad alta voce che lui rinunciò. Poco dopo arrivarono quattro guardie che ci disarmarono e ci condussero alla sede del comando, chiudendoci nell'avvolto. Il mio compagno imprecava contro il capitano e contro di me e continuava a ripetere che eravamo stati degli scemi, che dovevamo farlo fuori per salvarci. Alla sera venne un sottufficiale a dirci che il tribunale di guerra ci aveva condannati alla fucilazione e che questa sarebbe stata eseguita alle sette del mattino.
Fu una mazzata per tutti e due. Mi faceva ancor più pena il compagno, perché aveva famiglia, moglie e tre figli. Abbiamo pianto insieme. Pure lui aveva la madre e la invocava di quando in quando, fino a tarda notte. Pensavo anch'io alla mia, perché in quei momenti non si pensa alla fidanzata, né alla moglie, né ai figli: è la mamma che viene in mente! Forse perché solo lei al mondo ti ha sempre aiutato e voluto veramente bene! Mi venne in mente la raccomandazione della mia: quel giorno non avevo ancor detto le tre "Ave Maria"!
Dirle e balenarmi l'idea fu tutt'uno. Bussai alla porta, venne la guardia che, fortunatamente, era un trentino come noi, lo pregai di avvertirmi quando il capitano usciva dalla sua stanza e scendeva le scale; lo scongiurai di prelevarmi in quel momento e di accompagnarmi al gabinetto. Passai insonne le ultime ore, pregando e camminando. D. quando non piangeva, si mangiava le dita dalla rabbia, bestemmiava e mi dava ripetutamente dello stupido.
Verso le sei del mattino la guardia mi avvertì: "Si muove, tienti pronto!" Uscii, con lui dietro che teneva contro di me la baionetta innestata, e incrociai il capitano sugli ultimi gradini. "Capitano", implorai, "permetta una parola. È tutta colpa mia, ero io che dovevo stare laggiù. Il D. è innocente. Sono venuto su io a distrarlo". Il capitano si fermò guardandomi un po', poi chiese: "Cos'era quel tuo no, no, che hai ripetuto più volte?". Imbarazzatissimo gli spiegai che il mio compagno era fuori di sé e voleva una strage, ma io lo avevo trattenuto dal farlo, perché sarebbe stato nient'altro che assassinio. "Io ero un soldato e non un criminale!' , gli ripetei.
Il capitano si fece pensieroso, mi osservò fisso alcuni secondi, poi risalì di sopra nella sua stanza. Quando tornò, dichiarò, che aveva stracciato l'ordine di fucilazione e che eravamo salvi, ma che dicessi al mio compagno che era salvo per me, anche se lurido mascalzone».
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Il treno filava rapido tra le montagne verso Trento. Era tornato il giorno e il sole illuminava le alte cime dei monti. Il mio compagno di viaggio era lì, con la testa bassa, commosso per quella storia vissuta nei minimi particolari e che probabilmente aveva narrato altre volte come un capitolo incancellabile della sua vita. Ora lo guardavo con simpatia mista ad ammirazione. Da un incontro scocciante che m'ero figurato, ne era venuta fuori una conversazione cordiale, istruttiva e perfino commovente. Quando ci separammo nell'atrio della stazione, lo salutai affettuosamente, ringraziandolo della compagnia, e col cuore lo ringraziai ogni volta che mi venne in mente la sua storia. Vidi ancora il signor B. per le vie di Trento e, come spesso accade, l'ultima notizia di lui la ebbi leggendo gli annunci funebri sul giornale. Andai alle sue esequie. Osservando nella cappella cimiteriale la sua bara pensai che il signor B. aveva ora ritrovato quella meravigliosa donna di sua madre e che, accompagnato da lei, mormorando un'"Ave Maria", era stato introdotto in Paradiso, come figlio carissimo, dalla Regina del Cielo.
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