giovedì 7 febbraio 2013

Nella battaglia vinse l'uomo (seconda parte)


Annuario del collegio arcivescovile di Trento 1989/1990, n°. 56, pp. 69-76, (SECONDA PARTE)

La sera dell'8 giugno 1915 i mille alpini del "Morbegno", con due plotoni di mitraglieri, iniziarono la lunga e faticosa salita fino al Passo di Pisgana, dove giunsero verso le 4 del mattino, con un'ora di ritardo sulla tabella di marcia. 
Da qui a Passo Maroccaro la marcia richiedeva altre due ore. Una nebbiolina notturna pareva proteggere le colonne in cammino, ma all'improvviso un colpo di vento le scoperse e furono viste dal basso, dalle sentinelle austriache del Rifugio Mandrone. Qui alloggiavano un centinaio di sciatori austriaci, che furono posti subito in stato d'allarme con il suono di un corno da caccia. 
Tre di loro partirono veloci sugli sci verso Passo Presena per scendere a dare l'allarme a Passo Paradiso. 
Dalle colonne del "Morbegno" furono staccati 70 sciatori alpini che scesero verso il Rifugio Mandrone per tenerlo sotto fuoco e impedire un eventuale attacco contro il fianco del battaglione che, lentamente, continuava la sua marcia verso Passo Maroccaro, ove giunse alle 6.45 del 9 giugno. 
Gli uomini erano sfiniti dal lungo cammino. Si prepararono, comunque, per l'attacco, ancora non visti dal presidio di Passo Paradiso: la 44° e la 45° compagnia, allargandosi a tenaglia, sarebbero scese per il nevaio fino al laghetto del Monticello e avrebbero assalito, in massa, le posizioni austriache. La 47° compagnia restava in riserva su a Passo Maroccaro. 
Alle prime luci dell'alba la presenza di truppe italiane sull'alto nevaio Presena fu scoperta dagli austriaci di Passo Paradiso e anche dagli artiglieri dei forti Tonale e Presanella. In pochi minuti, a Passo Paradiso, 75 Landeschützen corsero nelle ridotte degli avamposti, in tempo per bloccare ed eliminare una pattuglia di alpini sciatori che, coraggiosamente, era già giunta davanti a loro. 
Le altre pattuglie di alpini, fermatisi sul nevaio a 300-400 metri, iniziarono un intenso fuoco di fucileria contro i Landesschützen preparandosi per l'assalto finale. Altri alpini, nel frattempo, in alto, da Val Narcanello attaccavano l'osservatorio austriaco del Castellaccio, ma senza successo. 
Il tenente Quandest, temendo un accerchiamento sul fianco destro, ordinò ad una squadra di sciatori di salire verso il Castellaccio e il Passo di Casamadre per unirsi agli uomini dislocati lassù e premere eventualmente sul fianco sinistro dei soldati italiani. Per la stessa ragione invio un secondo gruppo su per la morena del ghiacciaio Presena, per attaccare possibilmente il fianco destro degli alpini. Nelle posizioni centrali, a ridosso del laghetto, restavano circa 50 uomini, con 120 patrone ciascuno, ma privi di bombe a mano e di mitragliatrice. 
L'ordine era di non sciupare munizioni, di attendere, di lasciare che gli Italiani si avvicinassero e poi di sparare con calma, cercando bersagli sicuri. Quando la fucileria di qua e di là aumentò al massimo di intensità, i reparti più avanzati degli alpini, al grido di "Avanti, Savoia", scesero veloci, con grande coraggio, verso il laghetto. 
Landesschützen erano la valorosa truppa alpina dell'imperatore che la popolazione
trentina chiamava Bersaglieri Provinciali. Appartenevano a tre reggimenti che
avevano sede a Trento, Bolzano e San Candido
Cadde per primo un ufficiale italiano, il tenente Pettorino, che ruzzolò in basso sulla neve. Poi caddero altri alpini, perché il loro grigio verde sul bianco della neve costituiva un facile bersaglio per i Landesschützen. 
A peggiorare l'avanzata degli alpini cominciarono a esplodere sulle loro teste gli shrapnels sparati dai forti Tonale e Presanella. Erano senza elmetti e ben presto il ghiacciaio fu punteggiato di morti e feriti. Un banco di nebbia favorì un folto gruppo di alpini sotto la guida del capitano Giuseppe Villani, che si portarono a meno di 100 metri dalle posizioni austriache. 
Brandendo la piccozza e incitando i suoi soldati, l'ardimentoso capitano balzò in avanti per l'attacco decisivo. Fu colpito mortalmente e cadde con altri sulla neve; ma i più avanzarono e raggiunsero il laghetto, solo che nella confusione di aggirarlo, addossandosi gli uni agli altri, furono ancora più bersagliati dal fuoco nemico: i più audaci caddero a 15 metri dalla linea austriaca. 
Il comandante del battaglione, colonnello Castelli, seguiva da Passo Maroccaro con il binocolo le fasi della battaglia. Stava per impegnare la 47° compagnia di riserva, quando, a quota 2916, vicino a Passo Presena, comparve il gruppo austriaco che aperse il fuoco sul fianco dei reparti italiani. Non conoscendo l'entità del gruppo, il colonnello si trovò obbligato a trattenere la 47° e a impegnarla lì in alto, a difesa. Ma anche dal fianco sinistro, dalle rocce di Casamadre, arrivò il fuoco degli sciatori austriaci. 
Il colonnello era informato che erano caduti due capitani e quattro ufficiali, mentre tre erano seriamente feriti, e che le perdite delle due compagnie impegnate erano già alte; temendo ora di essere preso in tenaglia di aggiramento, decise di interrompere l'operazione e diede ordine al trombettiere di suonare la ritirata. 
I Landesschützen esultarono quando videro gli alpini tornare sui loro passi. Avevano ancora una dozzina di patrone e non pensarono pertanto di inseguire il nemico. Sarebbe stata una pazzia con quelle poche munizioni abbandonare le provvidenziali ridotte, tanto più che era mezzogiorno e la neve con il caldo era diventata molle e rendeva assai difficoltoso il cammino. 
Vedevano le compagnie italiane ritirarsi faticosamente su per la vedretta Presena verso Passo Maroccaro, abbandonando sulla neve i compagni morti e i feriti gravi. 
Chi era leggermente ferito cercava di trascinarsi su verso il passo aiutato dai compagni o anche a carponi, dopo aver buttato via le armi. Siccome nessuno degli alpini era provvisto di occhiali da neve, parecchi erano accecati dal bagliore del nevaio e salivano lentamente il pendio guidati a mano dai più fortunati. 
Il fuoco dei Landesschützen cessò del tutto quando anche la retroguardia degli alpini scomparve verso Passo Maroccaro. Al Mandrone non c'erano forze sufficienti per tagliare la ritirata del "Morbegno", che poté raggiungere Passo Pisgana e sparire oltre il crinale verso Val Narcanello, salvandosi da un disastro totale. 
Secondo i dati ufficiali, comunicati dallo stesso Comando italiano, le perdite sulle nevi del Presena furono di 52 morti e 87 feriti. I Landesschützen, al riparo delle loro ridotte, lamentarono tre feriti gravi e cinque feriti leggeri. 
Nel pomeriggio, scomparso l'avversario il tenente Quandest inviò pattuglie sul nevaio per il controllo dei caduti italiani e per il recupero dei feriti, ben sapendo che nessuno di loro avrebbe potuto sopravvivere all'aperto, nella notte, a quella altitudine. Fino alle 23 durò il pietoso servizio di recupero degli 87 feriti che furono portati sotto le tende dei Landesschützen. Fu trovato ancora agonizzante il capitano Villani assistito dal suo fedele attendente, che fu fatto prigioniero con rispetto.
Per quella notte i Landesschützen rimasero all'addiaccio, marciando avanti e indietro davanti alle loro tende occupate dagli alpini feriti o dormendo stretti tra loro, tra le rocce. Avevano compiuto una grandiosa opera di salvataggio; ma purtroppo uno di loro, Mayr, caporale del gruppo sanitario, era stato ucciso sul ghiacciaio, mentre si accingeva a soccorrere un alpino gravemente ferito. Non aveva armi e portava la fascia della Croce Rossa. Stava chiamando aiuto, quando un alpino gli sparò nella schiena, probabilmente sopraffatto dal delirio della morte. Fu l'unico caduto dei Landesschützen in quel memorabile giorno. 
Sono particolari, questi, raccontati da testimoni viventi, austriaci e trentini, come Giovanni Bertolini di Vermiglio, che faceva parte del reparto Landesschützen di passo Paradiso. I caduti alpini furono sepolti con gli onori militari nel cimitero di guerra di Stavel, vicino a Vermiglio1.   
Nel ricordo di questa battaglia a Passo Paradiso, un alpino di Vermiglio, il cavalier Emilio Serra, montanaro tutto d'un pezzo, artista e cultore attento della storia locale, ideò ed eresse nel 1978 sulle rocce dei Monticelli, davanti al laghetto, un monumento in blocchi di tonalite che egli chiamò "della Fratellanza", dedicandolo ai caduti delle Guerre. 
Il monumento "alla fratellanza" a Passo Paradiso eretto da Emilio Serra
Il monumento presenta in alto, due volti chiaramente sbozzati: un alpino con il caratteristico cappello e un Kaiserschütze dal berretto con le piume del gallo forcello. L'iniziativa del cav. Serra trovò un'accoglienza entusiastica da parte di un tirolese di Innsbruck, Kurt Steiner, storico, che la fece conoscere nella sua terra e si adoperò a far sì che i discendenti dei nemici di ieri, alpini italiani in grigio-marrone e austriaci in grigio-blu, si incontrassero a Passo Paradiso nel commosso ricordo dei caduti e per una comune manifestazione di pace. L'incontro si ripeté anche il 30 luglio 1989 e il 29 luglio 1990, alla presenza di un reparto della Divisione alpina "Orobica" e di un gruppo di alpini austriaci nella vecchia divisa. 
Il bell'atto umanitario, avvenuto a Passo Paradiso il 9 giugno 1915, e l'opera del cav. Emilio Serra, che lo ricorda, meritano di essere conosciuti e apprezzati dall'opinione pubblica. 
Tutti sanno che la guerra per i capi di Stato che la dichiarano è un pezzo di carta firmata; ma per chi deve farla, soprattutto per le masse contadine e operaie, resta una terribile maledizione che obbliga uomini liberi e semplici a diventare in breve tempo degli esseri duri, rassegnati ad un crudele destino, poveri disperati con i nervi a pezzi, capaci di atti eroici e disumani nello stesso tempo. 
Forse è soltanto nella truppa alpina che si ebbero le migliori eccezioni al riguardo. Non furono rari sulle nostre montagne gli episodi di uomini dell'una e dell'altra parte, che, prima di combattere, si scambiarono pane, cioccolata e sigarette, come fossero vecchi amici. Sì, perché la montagna affratella, leva ogni maschera, ti fa salutare spontaneamente chi incontri nella fatica del cammino, ti rende amico anche lo straniero. 
Nei suoi profondi silenzi, maestosa e solenne nel continuo avvicendarsi delle stagioni, immutabile e bella anche quando si scatenano le bufere, con l'infinito cielo sullo sfondo, la montagna non ti lascia indifferente, ti fa sognare e pensare. 
La grande montagna insegna l'umiltà. Ti senti piccolo e indifeso come un bambino quando la tormenta urla e si scatenano tra lampi e tuoni gli uragani. E se il tempo è bello, non cessi di guardare incantato le sparse nuvole che come vele gonfie ti portano per il cielo, e di ascoltare il vento che viene da lontano e racconta la storia misteriosa del tempo che non finisce. 
Tutto questo era noto agli alpini e ai Kaiserschützen, figli dei monti, che in quelle prime settimane di guerra osservavano con rinnovata emozione ogni tramonto, lassù a 3000 metri, e salutavano l'aurora come messaggera di vita e di pace. Erano li per fare la guerra, perché si comandava loro di fare la guerra. Ma nessuno voleva morire o avrebbe voluto vincere, uccidendo chi era di fronte, nell'altra trincea. Cosa ti aveva fatto? Non aveva anche lui una madre? 
Alpini e Kaiserschützen pensavano e sognavano allo stesso modo famiglia e paese natio. Per loro non aveva senso, non poteva averlo, quello di trovarsi lì sulla grande montagna ad ammazzarsi. 
Era il comune pensiero. Combattevano perché il destino di un dovere imponeva loro di essere lì a combattere. Lo hanno detto spesso, lo hanno affermato quasi tutti di aver sparato senza odio contro il nemico, di aver talvolta urlato dalla trincea a chi si avvicinava di fermarsi, di non venire oltre. 
La storia minuta conferma che si sono stimati e rispettati! Non è mai avvenuto che dopo i combattimenti in alta montagna alpini e Kaiserschützen trattassero male i prigionieri e li umiliassero. Se qualche caso è successo, incontrò ogni volta unanime e forte disapprovazione. 
Diversa fu la situazione sugli altri fronti, in valle o in pianura, dove si scontravano grandi masse di combattenti. Mentre sulla montagna conta il valore del singolo e si circonda facilmente di ammirazione e di rispetto ogni azione coraggiosa, anche quella dell'avversario, la guerra in pianura resta per lo più anonima, è spietata e crudele, perché l'animo è più facilmente avvelenato da una propaganda perversa e disumana. 
Di questa differenza sono prova la facilità e la frequenza con cui i soldati della montagna, avversari una volta, hanno desiderato incontrarsi in tempo di pace e scambiare parole di amicizia e di stima, rilevando sentimenti di rispettosa memoria per tutti i caduti. Il Monumento della Fratellanza a Passo Paradiso ne è una delle tante commoventi testimonianze. 
La storia, quella vera e senza retorica, ha voluto tramandare un piccolo ma significativo episodio al riguardo, avvenuto al Passo del Tonale il 4 novembre 1918, il giorno dopo l'Armistizio tra Italia e Austria. 
Un sottufficiale del "Nizza Cavalleria" si avvicinò ad un gruppo di prigionieri austriaci e cominciò a strappare le decorazioni che alcuni portavano sulle giacche. Immediato fu l'intervento di un tenente degli alpini che investì il sottufficiale con queste parole: "Razza di cialtrone, non ci vuole molto coraggio ora a prendersela con gente che non può reagire". Forse tra quei prigionieri c'erano dei Kaiserschützen di Passo Paradiso: tra loro, tra alpini e Kaiserschützen, il rispetto rimaneva ancora. 
Lorenzo Dalponte 

1. I Landesschützen, in riconoscimento di molte prestazioni sulle montagne del fronte Sud, ricevettero dall'Imperatore Carlo d'Asburgo il 16 gennaio 1917 il titolo onorifico di Kaiserschützen.

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