Annuario del Collegio arcivescovile di Trento 1994/1995, n. 61, pp. 141-143
Alla stazione, prima della galleria che congiunge la Svizzera con l'Italia, il lungo treno era fermo da un bel pezzo, perché, in quell'immediato dopo guerra, i controlli della dogana erano meticolosi e assai severi. Il treno era stracarico di giovani operai che avevano lavorato nei cantieri e nelle fabbriche della Svizzera francese fino alla sera del 23 dicembre e ora rientravano in Italia per le ferie natalizie. In ogni vagone si parlava animatamente sulle esperienze fatte e sull'imminente visita alle famiglie. C'era tanta felicità nelle parole di quei giovani, anche se i loro volti tradivano i segni del duro lavoro e della mancanza di sonno. Tornavano contenti a casa e, questa volta, anche un po' più ricchi per i compensi ricevuti. Ognuno portava dei doni ai familiari: cioccolata, sigarette, dolci, e anche qualche oggetto di valore come orologi, anelli, catenine d'oro, acquistati nell'ospitale ed opulenta Svizzera e da lungo tempo sconosciuti nel mondo italiano, uscito da poco dalla lunga guerra persa, con le città distrutte e le comunicazioni in gravissime difficoltà.
Finalmente si sentì il fischio del capostazione, si videro controllori e guardie di confine avvicinarsi frettolosamente alle carrozze e aggrapparsi alle maniglie delle porte per salire. Il lungo treno ebbe un sussulto, dapprima parve scuotersi per avviarsi poi, lentamente, verso la galleria di confine.
I passeggeri degli ultimi tre vagoni subito però si accorsero che dopo il primo scossone il treno non avanzava, anzi, si muoveva lentamente all'indietro. Più d'uno si alzò e guardò sorpreso dal finestrino per trovare la spiegazione d'un simile strano movimento e osservò controllori che correvano sul marciapiede gesticolando e urlando a gran voce. Uno di loro balzava sul seggiolino della prima carrozza e cercava di manovrare affannosamente il freno a mano; ma la velocità andava aumentando perché il binario era in leggera pendenza e favoriva la corsa. Dopo duecento o trecento metri, l'inclinazione del binario verso valle era più accentuata e le carrozze cominciarono a viaggiare alla velocità di un normale treno trainato dalla locomotiva. Il controllore attraversò i corridoi gridando ai passeggeri spaventati che, purtroppo, l'aggancio era saltato, che si buttassero per terra, tra i sedili, mettendo anche i bagagli a difesa. Raggiunta l'ultima porta, quella chiusa, e guardando oltre, lungo quel binario che si perdeva giù nella foresta come in una gola nera, il controllore ebbe la certezza dell'imminente inevitabile tragedia.
In quel momento la locomotrice che aveva accompagnato, in coda, da supporto, il lungo convoglio fino al confine stava arrivando alla stazione del fondo valle. I due macchinisti rientravano contenti di aver finito il loro servizio e di poter raggiungere presto le famiglie per completare gli ultimi preparativi della festa natalizia. Con sorpresa scorsero i marciapiedi vuoti e un' animazione insolita di manovrieri, di caposervizio, ispettori e cantonieri. Quando fermano la locomotiva sul binario morto, il capomovimento si è già aggrappato alla scaletta del tender e in poche e drammatiche parole spiega loro quanto stava succedendo: alla stazione di confine tre carrozze si erano staccate dal treno ed ora stavano scendendo a valle a piena velocità, senza controllo. Tutte le stazioni intermedie erano state avvertite di sgombrare e lasciare libero il binario principale. Ma cosa ci si aspettava? Nessuno poteva rispondere, ma ognuno sapeva che più avanti, giù nella valle, quando la velocità sarebbe stata al massimo, le rotaie non avrebbero retto e i vagoni, su qualche curva, sarebbero volati piombando, lungo le scarpate, nel vuoto. Non c'era bisogno di spiegazioni per immaginare l'irrimediabile disastro di vite umane.
Schröder, il macchinista più anziano, dopo un attimo di riflessione, prese una decisione e ordinò con brusche parole al compagno di scendere: «Vado io incontro al treno e tenterò di fermarlo». «È una pazzia, non puoi farlo», gli obiettò il fochista, ma si trovò spinto fuori dalla cabina da due robuste braccia. Si rivolse al caporeparto e agli uomini accorsi a spiegare quello che l'amico intendeva fare, ma questi aveva già messo in movimento la pesante locomotrice e stava tornando sui suoi passi: «Fermati, fermati», gli urlavano più voci, ma lui gridò loro di avvertire le stazioni del suo passaggio, poi alzò una mano quasi di saluto o di angosciata rassegnazione mentre la macchina aumentava il ritmo degli stantuffi accompagnandoli con un fischio lacerante che pareva un addio disperato. «Non può far nulla», ripeteva il fochista al gruppo che osservava impietrito la locomotiva scomparire, «non fa altro che aumentare il dramma».
Nel risalire la valle, Schröder rallentava ad ogni stazione e chiedeva agli amici ferrovieri se le carrozze erano ancora in viaggio e dove erano arrivate. I capistazione gli urlavano nomi e tempi, ma, soprattutto, cercavano di fermarlo, di convincerlo a tornare indietro e a uscire di binario. Egli salutava stizzito e dava un fischio continuando la corsa. Ad una stazione gli dissero che le carrozze erano a circa quindici chilometri e stavano arrivando a piena velocità. Ringraziò e con l'avviatore innestò la retromarcia, iniziando un lento ritorno sui suoi passi. Dal tender levò in fretta numerose palate di carbone che cacciò nella caldaia; poi, sul banco di manovra, controllò la pressione e la frenatura; infine, fattosi un segno di croce, manovrò per aumentare la velocità facilitato anche dalla ferrata in pendenza. Di quando in quando guardava indietro, lungo il binario. Poco dopo, prima ancora di scorgere le carrozze, le sentì arrivare dal fracasso come di tuono che facevano. Allora spinse al massimo l'avviatore e cominciò una fuga in avanti lasciando libera la sirena della locomotiva. Piombò nella sua stazione a velocità pazza, inseguito dalle tre carrozze. Agli uomini sul marciapiede quell'ululato insistente e straziante aveva raggelato il sangue. Si ritrassero impauriti contro i muri dei fabbricati quando la locomotiva, lanciatissima, passò loro davanti come un mostro apocalittico. Li spaventò ancora di più il passaggio delle tre carrozze perché poterono vedere nella seconda e nella terza volti disperati di passeggeri che aggrappati ai sedili imploravano aiuto con una mano. I più dovevano essere distesi per terra, sotto i sedili, per trovare qualche protezione nel terribile schianto che si aspettavano con terrore da un momento all'altro.
Schröder, in cabina, sempre curvo sul banco, attendeva l'urto ma temeva che il tender non resistesse all'impatto. Quando vide alle spalle la prima carrozza, il contachilometri segnava quasi i 150 all'ora. Sperava che i respingenti della locomotiva lo aiutassero. Puntando i piedi e braccia avverti un potentissimo scossone che spostò violentemente in avanti il tender e la locomotiva. Questa tenne e dopo un attimo di ondeggiamento scivolò sicura sulla ferrata: subito Schröder pensò che, forse, ce l'avrebbe fatta senza gravi danni. Lentamente, un po' alla volta, attivò la frenatura mentre sentiva che le ruote dei carrelli gemevano, ubbidienti, mandando scintille da ogni lato e l'indice del contachilometri progressivamente scendeva. La macchina rispondeva e reagiva ai comandi sopportando bene la pressione delle tre carrozze. Schröder non aveva fretta perché sapeva che la strada davanti a lui era libera, usò pazienza con la decelerazione e consumò molti chilometri prima di essere convinto che ora lui era il padrone del convoglio. Lo fermò all'uscita del fondo valle, entrando lentamente in una stazione. Quando bloccò l'ultimo stantuffo vide dal finestrino il personale muovergli incontro gesticolando in festa, poi avvertì una vertigine improvvisa che gli levò ogni energia e crollò sul tavolato della cabina.
Lo trovarono svenuto con la faccia sanguinante per aver battuto su uno spigolo; con un' ambulanza lo portarono subito all'ospedale più vicino. Alla stazione l'animazione era al massimo: gli uomini della ferrovia discutevano convulsamente, raggianti di sollievo come chi ha appena superato senza danno uno spavento mortale, i passeggeri avevano i volti tesi e rigati di pianto e si abbracciavano come fratelli dentro nelle carrozze e fuori sul marciapiede. Uscivano da un incubo che era durato quasi un'ora, avevano temuto una fine tragica e orrenda ed ora respiravano la vita con voluttà gustando la grande gioia di essere vivi e salvi. Certamente non avrebbero mai più scordato quel viaggio della vigilia di Natale!
La sera, all'ospedale, i familiari con il sindaco ebbero il permesso dai medici di entrare nella stanza di Schröder. I tre figlioli gli corsero vicino con gli occhi sfavillanti, i due più piccoli salirono sul letto e lui li baciò tutti ripetutamente, con la mamma, e se li strinse fortemente al petto. I fotografi, subito venuti, scattavano fotografie una dopo l'altra, da ogni posizione. Tutti erano emozionati. Due giornalisti segnavano rapidamente sul notes quello che vedevano e sentivano, raccoglievano con cura, ad una ad una, le poche e stanche parole che Schröder andava dicendo. «Siete stato oltremodo coraggioso», gli diceva il sindaco, «i passeggeri che avete salvato e le loro famiglie vi benedicono. La nostra città, anzi il paese intero, vi ammira ed è orgoglioso di voi. Vorrei sapere, quando siete andato incontro alle carrozze, a cosa altro avete pensato? Vi veniva in mente la vostra famiglia?». Alla radio, nel corso del notiziario delle ore 20, nelle case svizzere, la gente ascoltava, con attenzione, il dialogo e accolse con un brivido di commozione le parole del macchinista Schröder: «Si, vi pensavo molto e pregavo Dio di non permettere che i miei bambini e tanti altri diventassero orfani nel giorno del Suo Natale».
Lorenzo Dalponte
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