martedì 26 marzo 2013

Gli ex alunni caduti in Guerra


Gli ex alunni richiamati durante la Seconda Guerra Mondiale furono oltre duecento, assegnati ad ogni specialità delle forze armate. Furono mobilitati alla spicciolata, dai nati del 1911 a quelli del 1924, con un paio di annate di anziani, come le classi 1902 e 1907. Avendo compiuto studi superiori, la maggior parte vestì la divisa di ufficiali subalterni, con il grado di sottotenente già al momento del servizio di leva. 
Quando Mussolini, il 10 giugno 1940, dichiarò guerra alla Francia e all'Inghilterra, due milioni di soldati erano stati mobilitati in Italia. Il Duce era convinto che il conflitto, accanto alle vittoriose armate tedesche, sarebbe stato breve. Invece si allungò nel tempo per anni, raggiunse fronti remoti in Africa, in Albania, in Grecia, in Iugoslavia e in Russia, imponendo gravi perdite, duri sacrifici e amare delusioni ad un esercito impreparato e povero di mezzi. 
La capitolazione poi dell'8 settembre 1943 fu un disastro. In un paio di giorni, in Italia, sessanta divisioni furono disarmate da otto divisioni tedesche e deportate prigioniere in Germania. 
Quando la guerra terminò e i prigionieri tornarono, la direzione del Collegio Vescovile dovette tristemente constatare che tra gli alunni i morti in guerra o in prigionia erano ventitrè. 
Dalle singole famiglie o dai compagni di classe si raccolsero notizie abbastanza precise sulla loro tragica fine. Allora si pensò di dedicare alla loro memoria una sala nella nuova sede di via Endrici, con un buon numero di fotografie che richiamassero anche in seguito i loro volti giovanili e il loro triste sacrificio. Purtroppo non se ne fece nulla. 
Sono passati cinquant'anni dalla loro tragica scomparsa. Approfittiamo di questa «rivisitazione» per ricordarne alcuni, perché non scompaia la loro memoria. 

Avvocato Enrico Rizzi, sottotenente pilota:
Nato a Brez il 26 novembre 1913, frequentò con brillante profitto le scuole del collegio Arcivescovile fino alla maturità conseguita nell'anno 1930/31. Nel servizio militare scelse l'arma che realizzava il sogno della sua giovinezza: volare! Cadde a Campoformio di Udine mentre si allenava con un apparecchio di guerra.

Dottor Augusto Angeli, tenente medico
Nato a Cloz il 12 marzo 1912, cadde sul fronte egiziano nell'estate 1942 e fu sepolto nel cimitero di El Daba

Pierino Buffa, sottotenente di fanteria, disperso:
Nato a Cinte Tesino il 20 ottobre 1917, ex alunno del Vescovile è un disperso nei Balcani. "Disperso" è la laconica, sbrigativa espressione del linguaggio militare con cui si comunica che un combattente è scomparso nel turbine della guerra: può essere caduto in un' imboscata, può averlo ucciso un' improvvisa pallottola o un colpo alla nuca, come può averlo eliminato, nella prigionia, un atto di insensata ferocia

Ingegner Luigi Caneppele, sottotenente pilota

Insegnante Cesare Zanella, tenente di fanteria

Professor Costantino Marini, tenente degli alpini

Insegnante Adriano Guella, tenente di fanteria

Liceale Anton Ploner, sergente dei granatieri tedeschi

6. Sacerdoti del Collegio superstiti

Don Onorio Spada di Condino

Don Augusto Oberhofer di Bolzano








Luigi Caneppele


Ingegnere, sottotenente pilota.
Nato a Lavarone il 23 settembre 1913, assolse i suoi studi nel nostro Collegio con la maturità del 1930/31. Si iscrisse al Politecnico di Milano, ove si laureò nel 1938, trattando la tesi «Aeronautica d'assalto». 
Appassionato del volo a vela, partecipò alle Olimpiadi di Berlino del 1936, ottenne poi i brevetti per il volo con alianti e di pilota civile con apparecchi a motore. Terminati gli studi, prestò servizio militare presso l'aeroporto di Pescara, dove conseguì il brevetto di pilota militare. Con lo scoppio della guerra fu trasferito in Sicilia, da dove prese parte a molte azioni sull'isola di Malta e in Africa settentrionale. In una di queste azioni il suo apparecchio da caccia fu seriamente colpito ma lui, con grande abilità, seppe riportarlo entro le linee italiane dopo aver volato per ben quattrocentocinquanta chilometri in condizioni difficilissime. Gli fu concessa la Medaglia di Bronzo al Valor Militare. In una successiva azione si trovò solo di fronte a tre Spitfires inglesi, ne abbattè uno, colpì il secondo e mise in fuga il terzo. Per quest'azione gli fu conferita la Medaglia d'Argento. 
Luigi Caneppele
Avrebbe potuto rimanere in Italia dopo le numerose e coraggiose azioni di guerra, ma chiese e ottenne di tornare in Africa settentrionale, dove il generale Rommel preparava la vittoriosa offensiva contro gli inglesi. Il sottotenente Caneppele cadde nel cielo della Cirenaica in uno scontro con una formazione avversaria il I febbraio 1942. 
"Quando li vedo venire all'assalto su quei loro carrozzoni, non so se ridere di scherno o piangere di commozione», scrisse un pilota inglese. L'armata italiana, sulla carta, contava cinquemila velivoli, in realtà si riducevano a ottocento apparecchi validi. I caccia «Macchi» e i bombardieri «Sparviero» erano pochi di numero, se confrontati con quelli degli avversari inglesi e americani. Erano inoltre piuttosto scadenti per costruzione alquanto antiquata e sottoposti ad un eccessivo e sfibrante logorio, sicché non ressero allo scontro con gli Spitfires o con gli Hurricanes inglesi, superiori in velocità e armamento. Tuttavia nei cieli del Mediterraneo gli aviatori italiani compirono molte azioni audaci, anche con molti successi, ma più per l'eroismo dei piloti che per l'efficienza degli apparecchi. 
Il sottotenente Caneppele fu uno di coloro cui bene si addicono le parole sulla lapide di El Alamein: «Mancò loro la fortuna, non il valore!». La sua eroica morte fu compianta a Trento da familiari e da amici nelle associazioni della Juventus, dell'Azione Cattolica e della S.Vincenzo dove aveva militato con animo generoso e convinto. 


L'istituzione dei centri scolastici


Nei primi tre anni di guerra l'attività scolastica si svolse normalmente, anche se turbata dal ripetersi sempre più frequente degli allarmi aerei, dai disagi dell'oscuramento e dalle restrizioni dei generi alimentari. Quasi tutto era razionato: pane, carne, zucchero, olio, caffè, burro e formaggio. Nell'aprile del 1943 una violenta epidemia di tifo colpì i convittori del Vescovile. La malattia fece la sua comparsa un po' dappertutto, anche nelle valli, perché c'era carenza di medicinali molti individui erano debilitati dalla fame e da altre malattie. 
In convitto, a Trento, trenta alunni si ammalarono seriamente di febbre petecchiale e uno di loro, Luciano Fasanelli di Ossana, di quindici anni, morì. 
Dopo il bombardamento del 2 settembre e il conseguente fuggi fuggi della cittadinanza nei sobborghi e nelle valli, la direzione del Collegio decise di abbandonare la sede di Trento e di organizzare il nuovo anno scolastico in zone più sicure e tranquille. Tanto più che un'ordinanza del Provveditorato agli Studi aveva scelto come sede per gli esami della sessione autunnale, da svolgersi con la sola forma orale dal 28 settembre al 1° ottobre, non Trento, ma Pergine. 
Veduta di Trento nel 1925
Di conseguenza, per l'anno scolastico 1943/44, il Collegio aprì in città un'unica sezione della Scuola Media, presso l'Istituto dei Padri Stimmatini e nel convento dei Padri Francescani, e un unico corso del Liceo Ginnasio presso l'Istituto dei Padri Salesiani, in zone, dunque, lontane dalla linea ferroviaria e situate nelle vicinanze dei rifugi antiaerei, scavati nella roccia sotto la strada per la Valsugana. 
Altre sedi furono istituite a Pergine e a Mezzolombardo, con sezioni di Scuola Media e di Ginnasio Liceo, in funzione anche a Cles.
Si tenga presente che tutte queste scuole erano state aperte anche alle ragazze, in località che prima non avevano nessuna scuola media, né inferiore né superiore, nemmeno quella di Stato. A Pergine, non potendo soddisfare tutte le richieste delle famiglie, un insegnante del Vescovile, il professor don Lino Ianeselli, aprì una seconda sezione di Scuola Media per le rimanenti alunne, assumendone la presidenza. 

Tutte le scuole dei quattro centri avevano una sistemazione di fortuna, che imponeva al corpo docente sacrifici di ogni genere: residenziali, anzitutto, perché diversi insegnanti dovevano recarsi almeno in due sedi con mezzi di fortuna o in bicicletta su strade inghiaiate o a piedi quando nevicava; alimentari, perché con le sole tessere annonarie la mensa sarebbe rimasta troppo povera e perciò bisognava premunirsi ed acquistare l'indispensabile presso le famiglie contadine del vicinato o al mercato nero. 
Degna di encomio e di ammirazione nei due anni scolastici 1943/44 e 1944/45 fu l'opera del direttore di allora, monsignor Giuseppe Gabrielli (Predazzo, 1892-Trento, 1988), che tra mille difficoltà seppe far giungere ad ogni sede gli aiuti necessari al funzionamento delle scuole e al sostentamento dei docenti. 
Ad onore di questi ultimi, quasi tutti sacerdoti, va detto che le loro prestazioni non riguardavano solo l'insegnamento, ma davano anche una mano ai parroci locali nella cura d'anime, ricevendo in contraccambio qualche prezioso aiuto materiale. Nella stagione fredda si incontrava l'uno o l'altro di questi sacerdoti, quasi ogni pomeriggio, che andava con un carretto alla ricerca di segatura per il riscaldamento delle aule scolastiche. 
Va anche sottolineato che il comportamento degli alunni in questi due anni di scuola fu lodevolissimo: ne avevano capito il valore, segnavano pochissime assenze, arrivavano puntuali nonostante la distanza, la pioggia e la neve. Assai grande e varia fu pure la riconoscenza delle famiglie. 
Con la fine della guerra, il Collegio, in conseguenza del bombardamento del 13 maggio 1944, si trovò senza sede. La cittadinanza rientrava nelle proprie case e molti alunni dei centri scolastici chiedevano di poter continuare la scuola con i docenti dell'Arcivescovile. La direzione poté trovare presso gli oratori del Duomo e di S.Maria i locali necessari per ospitare i duecento alunni dell'anno scolastico 1945/46. 

Sacerdoti del collegio vittime della guerra

Don Narciso Sordo


Nato a Castel Tesino il 15 gennaio 1899, ordinato sacerdote il 29 giugno 1922, morì nel campo di concentramento di Mauthausen, e, più esattamente, nel campo di lavoro di Gusen 2, a pochi chilometri da Mauthausen, nell'aprile del 1944. 
Nei primi anni di sacerdozio fu cooperatore nelle parrocchie di Arco e di Denno e, nel 1928, fu nominato prefetto dei liceali del Collegio Vescovile di Trento. Passò poi a dirigere il convitto dell'Istituto Agrario di S.Michele e, nel 1942, fu inviato a Bolzano nella parrocchia di S.Giovanni Bosco. 
I bombardamenti del 1943 lo obbligano a sfollare dalla città assieme alla maggior parte della popolazione. Egli torna al paese natale, dove si erano rifugiate molte famiglie trentine e venete. Si fa carico di un lavoro importante e istituisce un centro scolastico per gli studenti della valle, premiandoli lui stesso agli esami di idoneità in più discipline, in matematica, italiano, latino e greco. 
Era un uomo di cultura, intelligente e amante dello studio. Nonostante i non facili impegni, s'era iscritto all'Istituto Cattolico di Studi Sociali di Bergamo e aveva conseguito la laurea in Scienze Sociali. I giovani lo amavano subito per il suo carattere aperto, generoso, franco e coraggioso. Innamorato della montagna, insegnava loro ad affrontarla con corde e picozze in estate, e con gli sci in inverno. 
Non nascondeva il suo spirito cosmopolita, l'acceso antifascismo e, quindi, l'antipatia al nazionalsocialismo, quando i tedeschi, nell'autunno del 1943, con la caduta di Mussolini divennero padroni del suolo italiano. Tra i partigiani rifugiatisi sui monti della sua valle ha due carissimi nipoti, figli di una sorella. Tiene con loro un assiduo contatto, fa loro giungere viveri e li avverte ogni qual volta si prospetta un rastrellamento da parte delle forze tedesche di polizia. Quando vengono arrestate delle persone in paese, don Narciso, che conosce abbastanza bene il tedesco, cerca di aiutarle, presta loro i soccorsi della religione e ogni altro possibile conforto, attirando su di sé l'attenzione e i sospetti dei militari. 
A Castel Tesino, nel tardo autunno del 1943, la popolazione vive giornate di angoscia. Avvengono arresti e fucilazioni. Alcune persone sono mandate al campo di concentramento di Bolzano. Anche don Sordo, alla fine di novembre, viene arrestato e trasferito nelle carceri di Borgo Valsugana, dove rima-ne venti giorni, continuamente minacciato e interrogato sulla presenza e sull'attività delle forze partigiane attive nella zona del Tesino. Poi anche lui viene inviato al campo di Bolzano, nel blocco E, quello dei «pericolosi», e segnato con il numero di matricola 7120. Vi resta un mese. 
L'8 gennaio 1944 è tradotto con altri al campo di Mauthausen, in Austria. Qui gli viene tolta la veste talare e riceve l'uniforme di detenuto a strisce bianche e blu. Ma egli resta un prete, pensa più al bene degli altri che a se stesso, interviene spesso come interprete in difesa dei compagni, quando questi vengono bastonati per un nonnulla. Nel campo vi sono guardiani con una mazza di gomma in mano, capicamerata scelti fra i criminali comuni, che sono dei mostri di crudeltà e godono nel picchiare e malmenare i prigionieri fino a farli morire. 
Don Narciso Sordo
Ai primi di febbraio don Narciso viene a sapere che cinquemila detenuti andranno al campo di lavoro di Gusen 2, a pochi chilometri di distanza. Chiede di partire anche lui, perché gli risulta che a Gusen non vi sono preti. Viene accontentato. A Gusen il cibo è pessimo, il lavoro è pesantissimo, dodici ore al giorno. I detenuti sono sfiniti, esposti ad angherie e pestaggi da parte delle guardie S.S.
Don Narciso è debole e ammalato, ma ha il morale alto, nutre fiducia nella fine prossima. Nelle poche ore di riposo trova momenti per passare da un tavolato all'altro a confortare e a confessare. Un giorno tenta di difendere un compagno dalle randellate di un capoccia, attirandosi la sua ira, al punto da esser bastonato lui per cento metri e gli vengono fracassati gli occhiali. Fu l'unica volta che lo si vide piangere, lui che non aveva mai un lamento. 
Un giorno non ne può più per i dolori intestinali e chiede di essere ricoverato in infermeria. Costretto a restare nudo in cortile per il turno del bagno, si muove anche lui quando suona la sirena dell'allarme aereo per andare al rifugio. Una massa di infelici disperati lo sorpassa e lo travolge. Non ha più forza di rialzarsi, è quasi cieco. Dopo l'allarme viene raccolto da alcuni compagni, ma è già morto. Erano i primi di aprile del 1944. Don Narciso Sordo aveva quarantacinque anni di età e ventidue di sacerdozio. (Continua)

Sacerdoti del collegio vittime della guerra


Don Beniamino Tarolli   
Il professor don Beniamino Tarolli (1876-1944) nacque a Castel Condino, fu consacrato sacerdote nel 1899, si laureò in Lettere classiche e italiane all'Università di Innsbruck nel 1903 e passò il resto della sua vita come insegnante presso il Collegio Vescovile. 
Quando nel maggio del 1944 le sirene suonarono l'allarme, don Beniamino non si mosse dalla sua stanza per andare nel rifugio antiaereo ricavato nei sotterranei del Seminario Maggiore. Fu trovato quattro giorni dopo sotto le macerie, il corpo spezzato e il cranio infranto dalle travature cadute, con la corona del rosario in mano. 
Don Beniamino Tarolli
Fu una perdita gravissima per l'Istituto perché don Tarolli non fu solo un insegnante che veniva a mancare, ma fu un grande maestro, un vero educatore quale la scuola raramente produce: una di quelle figure che restano nel cuore degli studenti, di tutti gli studenti, circondata da un alone di simpatia e di venerazione. Per molti anni, per decenni si può dire, gli ex alunni ad ogni incontro parlavano di lui. La sua memoria fu una benedizione. 
Così lo ricorda uno scolaro che lo ebbe insegnante negli anni del Ginnasio nel 1920: «Sono passati venticinque anni dal primo giorno che lo incontrai. Lo ebbi per meno di due anni insegnante di italiano, latino e greco. Ma la sua figura è sempre restata e resterà profondamente impressa nell'animo mio. Aveva un'esteriorità piuttosto severa, apparentemente fredda. Era di un'esattezza tale da rasentare quasi la pedanteria. Le sue interrogazioni parevano implacabili e non lasciavano la possibilità di una preparazione saltuaria. Non ritardava mai d'un minuto nell'arrivare in classe e, al suono del campanello, spezzava a metà una frase e chiudeva immediatamente il libro. Era inesorabile nello stroncare le facili gonfiature retoriche ("già, per voi sono tutti grandi, grandissimi poeti, scrittori...") Esigeva da noi, poveri studentelli, una purezza di lingua degna della Crusca (guai a chi si fosse lasciato scappare, senza neanche magari saperlo, un qualche francesismo!). Ma questa era la corteccia sotto la quale si sentiva vibrare un animo profondamente tenero, uno spirito molto largo e assai comprensivo. Tutti noi, giovani studenti della quarta ginnasiale, gli eravamo profondamente attaccati, perché al di là del professore dagli occhiali cerchiati d'oro (noi, maligni, benevolmente autorizzati da lui, l'avevamo battezzato "il lungo e magro professor di greco", da una poesia che egli stesso ci aveva fatto studiare) vedevamo, sentivamo il padre, l'educatore. Sapeva dare un'anima all'insegnamento, sapeva indirizzarlo non solo all'arricchimento dell'intelligenza, ma anche alla formazione del sentimento e all'irrobustimento della volontà. Era, per quanto umile e schivo, un vero educatore, sapiente e pio. 
Naturalmente era noto che gli alunni uscivano stanchi dalle sue lezioni, ma sempre arricchiti e aiutati da un pensiero finale, di sintesi, che raccoglieva l'argomento trattato in una massima sapienziale. Era temuto, stimato, soprattutto amato, perché gli alunni sentivano di avere in lui una guida che li portava a scoprire se stessi, le loro intime energie, il senso della vita. Avevano scoperto e capito il suo cuore e la sua anima e ne erano affascinati. 
Il principio base della sua azione educativa era nella forza di convinzione con cui frequentemente richiamava il carme di Alessandro Manzoni: In morte di Carlo Imbonati: «... dalla meta mai torcer gli occhi/ il santo vero mai non tradir/ non proferir mai verbo/ che plauda al vizio o la virtù derida''. Anche i colleghi di insegnamento nutrivano per don Tarolli rispetto e ammirazione. Era tra loro piuttosto solitario, parlava pochissimo. Aveva abitudini austere di dedizione ferrea al dovere, all'orario, alla preghiera. Pure con loro non trattava mai se non di argomenti elevati, nutriti da una vastissima cultura ed espressi con sicurezza di giudizio. 
Era un uomo di preghiera. Ad un'ora precisa scendeva nella cappella del collegio o passeggiava nei piazzali leggendo devotamente il breviario. Aveva abituato gli alunni a pregare insieme per la salvezza della patria e per la pace dei suoi caduti, quando alle dieci suonava la sirena della Michelin per l'avvicendamento degli operai. 
Amava «la patria italiana» d'un amore purissimo, sincero, privo di retorica. Si era nutrito della cultura italiana, di quella autentica: «Se mi aprile il cuore - aveva più volte detto - troverete scritta una parola: Italia!». La sorte volle che gli operai, scavando fra le macerie trovassero vicino alla sua salma la bandiera italiana dell'Istituto. Non avendo lì per li una tela in cui avvolgere le sue spoglie, lo raccolsero nel tricolore e lo deposero nella bara. 

Nel Trentino bombardamenti a tappeto


Nell'agosto del 1943, per fiaccare psicologicamente l'Italia di Badoglio e obbligarla alla resa incondizionata, gli Alleati intensificano i bombardamenti su Milano, Torino, Genova, Roma, Napoli. Giungono anche sopra Trento. Né l'aviazione della Repubblica Sociale Italiana di Salò, né la Luftwaffe tedesca sono in grado di contrastare le loro massicce incursioni. 
Il 2 settembre 1943 una squadriglia di quadrimotori da bombardamento, le argentee fortezze volanti, compare sopra il Bondone, mentre a Trento l'ululo lancinante delle sirene da l'allarme. Le bombe, forse destinate a colpire il ponte di S. Lorenzo e la stazione ferroviaria, cadono sul quartiere della Prepositura, tra la torre Vanga e la chiesa di S. Maria Maggiore. Fu un sacrificio di vite umane: duecento le vittime, centonovantuno civili e nove militari, e la zona resa inabitabile. 
Ci si illudeva che il Trentino venisse risparmiato dai bombardamenti, ma in quell'occasione si capì che anche Trento e la linea ferroviaria, da Ala al Brennero, rientravano fra i bersagli dei bombardieri anglo-americani. La cittadinanza abbandonò in fretta il capoluogo, cercando una qualsiasi sistemazione nei sobborghi o nelle valli, presso parenti o amici. 
Nei mesi seguenti raramente passò giorno senza che le sirene non suonassero il loro angoscioso lamento ad avvertire la gente dell'imminente minaccia. I grossi aerei, sorvolando il lago di Garda, comparivano alti sul Bondone, scortati da aerei più piccoli, da caccia. Se ne avvertiva il lugubre
rombo e si vedevano grappoli di bombe cadere con un sibilo agghiacciante sulla linea ferroviaria, sul ponte dell'Avisio, su quello di S. Michele, quando non scomparivano più a nord, verso Bolzano, Innsbruck, fino a Monaco di Baviera a portare colà distruzione e morte. 
Per il Collegio Vescovile la catastrofe capitò il 13 maggio 1944, con il secondo bombardamento della città, che fece centoventinove vittime. Numerose bombe caddero sul cimitero, sui piazzali, sull'istituto, aprendo enormi squarci nei muri e mandando in frantumi le tegole dell'immenso tetto. Le parti più colpite furono la facciata principale e l'ala a sera, ove si trovavano gli uffici della direzione e della presidenza, con un prezioso materiale d'archivio che andò completamente perduto. Restarono sepolti sotto le macerie un anziano e stimato professore, don Beniamimo, e un fedelissimo servitore del seminario, Vittorio Marchiori di Saone. (Continua)
Effetti del bombardamento di Trento del 13 maggio 1944