lunedì 25 marzo 2013

La guerra e il Trentino


Nel Trentino, come nel resto anche dell'Italia, la Seconda Guerra Mondiale non ebbe nulla di popolare, fu solo un' imposizione dall'alto partita dalla volontà di un dittatore. La propaganda fascista a favore dell'entrata in guerra a fianco della Germania ne era a conoscenza e pertanto si fece intensa e capillare. L'Istituto di Cultura si diede molto da fare nelle città, nelle campagne e nelle valli, nelle sezioni ricreative e culturali del Dopolavoro presenti anche nei piccoli villaggi, per convincere la popolazione della necessità della guerra che «i popoli giovani», come l'italiano e il tedesco, avrebbero vinto portando nel mondo giustizia, benessere e pace. 
La scuola fu sollecitata a preparare il cittadino soldato. La partecipazione alla guerra fu descritta come un'esperienza affascinante ed esaltante, ma le famiglie trentine erano decisamente contro la guerra. I mali causati dalla Prima Grande Guerra erano ancora vivissimi, i morti da essa creati con diecimila caduti e quattordicimila invalidi erano sempre attuali e dolorosi. I contadini trentini non si lasciarono nemmeno adescare dalle proposte fatte loro dall'Ente delle Tre Venezie che andava acquistando dagli «optanti» per il terzo Reich campagne fertili e ben coltivate in Alto Adige. Erano offerte a prezzi buoni, ma i contadini rifiutavano e preferivano trovare un'occupazione nelle industrie tedesche che davano un buon salario. Nel 1941 quattromila trentini andarono a lavorare in Germania, imitando quanto avevano fatto i loro vecchi nelle passate emigrazioni. Naturalmente la cartolina militare, consegnata in massa a tutte le classi dal 1910 al 1921, portò lontano i giovani trentini, in Francia, in Africa, in Albania. Il richiamo viene subito accolto come una disgrazia, strappa maledizioni all'indirizzo del Re e del Duce. Si pervenne presto ad una scissione tra le formazioni fasciste nelle loro divise nere e il soldato scarpone in grigio verde. L'antipatia divenne rabbia quando, nella primavera del 1943 rientrarono dalla Russia i pochi battaglioni degli alpini sconfitti, insonni nel corpo e nello spirito. La divisione Tridentina vi aveva perso undicimilaottocento uomini e la Julia dodicimilatrecentocinquanta: un'immane tragedia! Al Brennero e a Bolzano gruppi di alpini picchiarono i gerarchi fascisti che intendevano salutarli con le solite espressioni patriottiche di vuota retorica. Con loro c'era tutta l'opinione pubblica trentina che disapprovava la guerra e, particolarmente, quella a fianco della Germania nazista. 
La guerra, il Duce, il partito fascista cominciarono ad essere odiati anche pubblicamente. Quando il 25 luglio 1943 il Re fece arrestare Mussolini e nominò Badoglio capo del governo, unanimi furono il giubilo e la speranza che la fine della guerra fosse prossima. 
Purtroppo l'alleato germanico fu in grado di occupare militarmente l'Italia e così la guerra continuò, anzi si fece più drammatica e più vicina. La delusione della gente fu grande, perché capiva che il peggio stava per giungere ora con i pesanti bombardamenti degli anglo-americani e con la furibonda reazione dei tedeschi alla firma dell'armistizio italiano, avvenuto il 3 settembre. 
Il 7 settembre, sul calar della sera, i reparti germanici presenti a Trento e a Rovereto cominciarono a occuparne i punti strategici. Alle tre di notte, sferrano l'attacco alle caserme e in poche ore sono padroni delle due città. Qualche coraggioso ufficiale cerca di organizzare una resistenza, ma è pura follia combattere con soli fucili contro chi disponeva di cannoni e di carri armati. Ci furono quarantotto morti, oltre duecento feriti e migliaia di prigionieri, avviati al campo di aviazione di Gardolo, che poi furono trasportati in Germania. 
Il fascismo italiano venne eliminato per sempre nel Trentino, ma subentrò il Nazionalsocialismo tedesco che, qualche giorno dopo, unì le province di Trento, Bolzano e Belluno nell'Alpenvorland, la "zona di operazioni delle Prealpi", praticamente unita al Reich tedesco, agli ordini del Gauleiter del Tirolo Franz Hofer. Questi nominò a Trento un commissario prefettizio nella persona dell'anziano e stimato avvocato Adolfo de Bertolini, con la promessa che le popolazioni trentine sarebbero state rispettate e sarebbero rimaste autonome, se si mantenevano tranquille e non dimostravano ostilità contro le truppe tedesche. (Continua)


Il collegio vescovile nella bufera della II Guerra Mondiale



L'Europa in fiamme 

Il 28 ottobre 1938 a Roma Benito Mussolini, capo della dittatura fascista, diceva così al Ministro degli Esteri di Germania, Joachim von Ribbentrop, arrivato nella capitale per sollecitare la firma del patto tripartito italo-tedesco-giapponese: «Non dobbiamo fare un alleanza puramente difensiva... vogliamo fare un'alleanza per cambiare la carta geografica del mondo»: una comune politica di aggressione, dunque, in forza della quale le truppe tedesche occupano, nel 1938, l'Austria e, l'anno seguente, la Cecoslovacchia. Mussolini non è meno imperialista e il 7 aprile 1939 conquista l'Albania; un mese dopo, il 22 maggio, viene firmato a Berlino dai rispettivi ministri degli Esteri il «Patto d'Acciaio» e nasce così l'Asse Roma-Berlino, un'alleanza che vuole realizzare un nuovo ordine nel mondo. La Seconda Guerra Mondiale scoppia in Europa il 1 settembre 1939, allorché il dittatore tedesco Adolf Hitler dà ordine a sessanta divisioni di invadere la Polonia. In tre settimane l'eroica nazione è in ginocchio, per due terzi sotto il tallone germanico, per un terzo sotto quello russo; il 3 settembre Inghilterra, Canada e Francia dichiarano guerra alla Germania. Il grande incendio, che per sei anni devasterà il mondo, è cominciato. Prevenendo una pericolosa mossa inglese e francese, il 9 aprile 1940 Hitler occupa la Danimarca e la Norvegia: la prima cede subito, la seconda, con l'aiuto della flotta inglese, resiste fino a giugno. Il 10 maggio le divisioni corazzate tedesche irrompono in Olanda, nel Lussemburgo e nel Belgio e penetrano a fondo nel suolo francese. Il mondo assiste attonito alla resa della Francia e Hitler è ormai convinto nella sua sconfinata ambizione, di aver presto tutta l'Europa ai suoi piedi.
Il duce italiano, Mussolini, non vuole essere da meno del fuehrer tedesco, ambisce a prendere parte alle sue vittorie e sogna di sedersi, come vincitore, al tavolo dei negoziati di pace per la nascita della nuova Europa. Nel tardo pomeriggio del 10 giugno 1940 rivolge agli italiani un roboante discorso «Combattenti di terra, di mare e dell'aria, ascoltale! Un'ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra Patria! La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia»
In quelle ore la Francia era mortalmente ferita, agonizzante, e la Gran Bretagna si trincerava nelle sue isole. Chi scrive allora aveva diciannove anni e frequentava la seconda classe del Liceo classico. Era stato dal dentista e se ne tornava in collegio quando trovò piazza Duomo gremita di gente in attesa del discorso del Duce. Si fermò anche lui, ascoltando in silenzio con un misto di orgoglio e di trepidazione. Solo un settore di sfegatati applaudì alla fine, mentre l'altoparlante diffondeva le note dell'inno fascista. Mi sorprese l'espressione di un anziano signore davanti a me che non attese oltre e si mosse mormorando: «La guerra è cominciata! Ora ne siamo certi: ma come finirà?». Lo fermai dicendogli: «Ma, signore, cosa dice? Non c'è dubbio che la guerra finirà con la nostra vittoria!». L'uomo mi fissò un attimo attentamente, poi soggiunse: «Sei giovane, figliolo, aspetta un po'e vedrai». Non vedemmo subito, ma venimmo a saperlo presto, che l'avventura della guerra poteva tradursi in una catastrofe. Il 21 giugno oltre trecentomila soldati italiani affrontarono sulle Alpi occidentali il debole dispositivo francese di novantamila uomini con il proposito di sfondare e scendere nella vallata del Rodano. L'offensiva italiana avanzò soltanto di due chilometri, con la perdita di oltre seimila combattenti contro i duecentocinquantaquattro francesi. L'immediato bombardamento di Genova e di Torino ci fece capire che il conflitto non avrebbe riguardato solo i soldati al fronte, ma avrebbe minacciato tutti, anche coloro che erano a casa. 
La guerra investì dapprima con maggiore virulenza le colonie africane, la Libia e l'Abissinia. Dopo qualche conquista iniziale ogni nostra velleità fu bloccata dalla superiorità in uomini e mezzi degli inglesi e incominciarono le fasi della sconfitta totale per l'impero italiano. Mussolini è alquanto mortificato dai successi tedeschi in Europa e il 15 settembre 1940 decide di attaccare la Grecia, accusata di parteggiare per l'Inghilterra e di nutrire sentimenti ostili alla nazione italiana. Fu un'infelice campagna che costò al nostro Paese ottantamila vittime e tanta vergogna e che si concluse nell'aprile del 1941 con il travolgente, vittorioso intervento, durato appena dodici giorni, di un'armata tedesca attraverso la Jugoslavia e la Grecia. 
L'Europa è in fiamme. Il 20 maggio 1941 reparti di paracadutisti tedeschi occupano Creta, non senza gravi perdite. Un mese dopo, nel pomeriggio del 22 giugno, centoquarantotto divisioni germaniche con il sostegno di truppe romene, ungheresi, finlandesi, italiane e spagnole attaccano senza preavviso la Russia di Stalin e avanzano rapidamente verso Mosca e il Caucaso. Nel tardo autunno, il 7 dicembre, anche il Giappone entra in guerra bombardando a tradimento le isole Hawai americane.
Il 1942 sembra decisamente favorevole all'Asse Roma-Berlino-Tokio. Si attacca e si avanza dappertutto, nel Pacifico, in Russia, in Nord Africa. Ma con il 1943 arriva la svolta decisiva: soverchianti forze inglesi, americane e canadesi occupano tutta l'Africa settentrionale e in luglio sbarcano in Sicilia. Il 24 luglio, con l'arresto di Benito Mussolini, avviene il crollo del regime fascista in Italia. In Russia, il 1° febbraio, le truppe tedesche si arrendono a Stalingrado e lungo l'enorme fronte, dal Baltico al Mar Nero, inizia il lento e combattuto ripiegamento che durerà 20 mesi. 
In occidente il 4 luglio 1944 gli Alleati entrano in Roma. Mentre migliaia di aerei bombardano giorno e notte la Germania, il generale Dwight D. Eisenhower, comandante supremo di tutte le forze alleate, concentra quasi tre milioni di combattenti sulla costa meridionale dell'Inghilterra, con montagne di munizioni nascoste nelle foreste e con cinquantamila veicoli, fra carri armati, semi cingolati, autoblindo, autocarri, jeep e ambulanze, pronti per essere trasportati sul continente. Sulla Manica sono raccolte cinquemila unità navali, la flotta più potente che avesse mai solcato i mari, che si accingono a partire verso la Francia su rotte ben precisate. Eisenhower fissa lo sbarco in Normandia per le prime ore di martedì 6 giugno: è il D-Day, la più grande operazione militare di tutti i tempi! In quel mattino, diverse centinaia di aerei e alianti superano lo sbarramento di fuoco della contraerea tedesca e portano migliaia di paracadutisti americani, inglesi e canadesi sul suolo francese, dietro il vallo atlantico. Grosse navi da guerra inglesi e americane aprono il fuoco, sulle spiagge di loro competenza, martellando e distruggendo a una a una le opere di difesa tedesche. A completare l'opera in profondità, sul far del giorno, compaiono undicimila bombardieri e caccia alleati che, a ondate, bombardano le zone di invasione e l'entroterra. Troppo tardi le forze corazzate tedesche reagiscono per rigettare in mare gli Alleati. Sul far della sera circa cinquantamila uomini sono già sbarcati e ne stanno per arrivare altre decine di migliaia. L'inizio della fine della Seconda Guerra Mondiale: la Germania sarebbe capitolata in meno di un anno, il Giappone quattro mesi dopo. (Continua)



Una vicenda di fanciulli


Annuario del collegio arcivescovile di Trento, 1994/1995, n. 61, pp. 54-55

Lui aveva dieci anni, due più di me. La vita l'aveva già fatto robusto e serio, portava ormai sulla fronte una riga che a me pareva segno di maturazione e di nobiltà. Orfano di papà e mamma, veniva da un paese della valle dove era cresciuto presso parenti che non erano stati eccessivamente teneri con lui. Gli avevano procurato di che vivere, ma avevano anche preteso molto. La fanciullezza per lui non era stata serena, solo lavoro quotidiano, rabbuffi frequenti e poche soddisfazioni. 
In autunno era comparso nel mio villaggio, presso una vecchia zia, anzi prozia per l'esattezza, quella che acquistava le uova nelle nostre case per venderle all'ingrosso. Lui veniva a scuola con noi, era pulito e vestito decentemente ma non giocava mai con noi, perché a casa lo aspettava ogni giorno un impegno, di andare con il carretto nel bosco della comunità a prendere legna. 
Vedendolo sfacchinare come un adulto, mi faceva pena e qualche volta mi accompagnai a lui e lo aiutai a cercare la ramaglia. Parve accettare con riconoscenza il mio interessamento e in poco tempo diventammo amici. In primavera mi indicò il primo nido e più tardi mi guidò in un posto dove i ciliegi selvatici maturavano i primi frutti. Sapeva fare anche degli archetti per prendere uccellini: «Polenta e osei è un cibo degli dei», mi ripeteva più volte con solennità. Era, in breve, per me un tipo interessante, che affrontava ogni situazione con grande energia. Sapeva battersi con ragazzi più vecchi e più forti quando riteneva di avere ragione o lo volevano mortificare. Quando perdeva, perdeva con dignità e si allontanava dal luogo della contesa senza piagnucolare. 
Io lo ammiravo e lo invidiavo per il coraggio e la forza di carattere. Mi aveva confidato che quando portava a casa un fascio di legna grosso, la zia gli dava venti centesimi. Toccava anche a me fare dei lavorucci in casa, ma sempre senza compensi. Solo alla domenica mio padre mi dava una moneta da venti, con la quale mi comperavo un pugno di castagne secche o carruba. 
Una sera aiutai l'amico a tirare a casa il carretto ben carico di legna e sentii sua zia, che per me era più brutta di una strega. lodarlo con belle parole e la vidi levare di sotto il grembiule e dargli quella invidiabile moneta luccicante, così preziosa negli anni Trenta, quando un lavoratore adulto guadagnava una lira al giorno. Tornai a casa deciso a mettere le cose a posto. 
Quel giorno, era estate, mi pareva di aver sfacchinato abbastanza per la famiglia. Andai nella mia stanzetta, levai dal brogliaccio di scuola un foglio e vergai un biglietto di questo tenore: «Quello che la mamma mi deve: per i tre fasci di legna tagliati, centesimi 20; per la colazione e la merenda portate in campagna al papà, centesimi 40; per la lettera imbucata e l'acquisto dello zucchero, centesimi 20: totale centesimi 80». 
Quando venne l'ora di andare a letto, entrai furtivo nella stanza dei genitori e misi il biglietto sul comodino della mamma, convinto, finalmente, di ottenere giustizia. Ricordo che in quella notte fui assai inquieto e mi svegliai più volte pensando ai soldi. Mi alzai di buon mattino e, cosa insolita per un dormiglione, sentii che mio padre scendeva le scale per andare nella stalla e che mia madre era già al lavoro in cucina. Mi infilai i pantaloncini e scalzo, per non fare rumore, uscii dalla mia stanza ed entrai in quella dei genitori. 
Fu un momento di meraviglia e di profonda soddisfazione lo scorgere sul comodino di mia madre un mucchietto di centesimi. Li ghermii di colpo, felice del risultato. Solo che, sotto le monete, c'era un biglietto scritto con quella grafia obliqua e limpida che ben conoscevo. Ripeteva la frase della mia richiesta in una forma inaspettata: «Quello che mio figlio mi deve: per averlo allevato e nutrito per otto lunghi anni, ...! per averlo vestito man mano che cresceva con vestiti sempre nuovi...! per averlo assistito notte e giorno quando era ammalato,...! quello che mio figlio mi deve: Nulla! La mamma!». 
Questo non me l'aspettavo proprio! Stetti lì un paio di minuti incerto se rimettere i soldi sul comodino, quando mia madre comparve nel vano della porta. Vide la mia sorpresa e il sincero imbarazzo. Mi vergognavo, non sapevo che fare, che dire, se piangere o meno: «Tienili, — mi disse con voce tranquilla — mettili nel tuo salvadanaio. Ma in questa casa, non vedere solo te stesso! Ci siamo anche noi e lavoriamo duramente per aiutarci a volerci bene, senza pretendere che qualcuno ci paghi». 
Avevo otto anni, non ero né buono, né cattivo ma questa vicenda mi insegnò per tempo molte cose. 
Lorenzo Dalponte 

Marisa Segata vive nel ricordo


Annuario del collegio arcivescovile di Trento, 1991/1992, n. 58, pp. 129-130

Terminati gli studi di ragioneria nell'estate del 1981 presso il Collegio Arcivescovile, Marisa Segata cominciò subito a lavorare nell'azienda del padre Fausto, proprietario, a Sopramonte, di un fiorente stabilimento per la lavorazione delle carni. Conseguì nel giro di pochi anni tale esperienza e competenza da assumere la responsabilità di tutto il settore commerciale, degli acquisti e delle vendite. 
Nella notte del 25 agosto scorso avvenne il mortale dramma. Marisa rientrava da Rovereto sull'autostrada con la sua Lancia Delta e, per cause che non si conosceranno mai, andò a cozzare contro il guard-rail all'altezza dell'abitato di Nomi sfondandolo e piombando nell'Adige. 
I funerali ebbero luogo nel pomeriggio del 27 agosto, nel paese natale. Un'immensa folla di uomini e donne, di giovani soprattutto, gremì l'ampia chiesa di Sopramonte e il piazzale antistante. Nel cuore di ognuno c'era un grande smarrimento. Gli occhi si posavano muti e tristi su quella bara, posta davanti all'altare, al posto d'onore. Nel primo banco, lì accanto, c'erano i genitori ed i fratelli, col volto pietrificato dal dolore, ma composti e pieni di dignità, che stringevano in silenzio la mano di centinaia di persone che sfilavano loro davanti mormorando parole di cordoglio e di intima partecipazione al grave lutto. 
Dopo le solenni esequie la folla non si sciolse, ma si incamminò in un lungo corteo dietro i sacerdoti e il feretro salendo su verso la collina dove è situato il camposanto. Voleva essere presente con i familiari al momento di dare l'estremo saluto alle spoglie mortali di Marisa. Nessuno dei presenti dimenticherà facilmente quegli attimi quando il sacerdote benedisse nuovamente il feretro e gli amici lo sollevarono per portarlo alla tomba. C'era in tutti un grande silenzio, e un nodo alla gola che levava ogni parola! 
Quella partecipazione di popolo era indubbiamente rivolta alla famiglia Segata. Era pure un tributo diretto a Marisa, alla sua giovinezza, al successo del suo lavoro. Già sui banchi di scuola era apparsa una giovane di doti distinte e polivalenti, con una personalità forte e brillante, aperta a molti interessi. Alle grosse responsabilità del suo ufficio si era preparata con buona volontà, con soggiorni impegnativi di studio in Germania e in Inghilterra. Se la sua foto rende viva l'immagine del suo volto felice e dall'aperto sorriso luminoso, le espressioni dei familiari nell'annuncio di morte hanno indicato il suo ritratto morale ancora più bello e significativo: 
«L'amore della famiglia 
la gioia del lavoro 
il culto dell'onestà
e l'altruismo 
furono realtà luminose 
della sua vita.» 
Orgogliosa della sua famiglia, dei genitori, dei due fratelli e delle due sorelle, attiva e risoluta nel lavoro, con una dirittura d'animo eccezionale, serbava nel segreto del cuore gli atti di una generosità personale, sconosciuta, diretta a fare del bene, ma di nascosto. ogni qualvolta scopriva un bisogno. Soltanto dopo la sua scomparsa i familiari ebbero conoscenza della sua carità. Qualche settimana prima, con la collaborazione di amici, aveva spedito un carico di viveri in Iugoslavia, senza dire nulla. 
Cara Marisa! Non vogliamo fare di te una giovane d'eccezione, una mezza eroina. Non ti facciamo monumenti, se non nel cuore. Ti teniamo giovane e bella e felice come ti abbiamo conosciuto. Trent'anni di vita sono pochi, sono i primi e per molti di noi sono ancora di preparazione. Ma tu in questi brevi anni hai lasciato già un'eredità: quelle realtà che i tuoi familiari giustamente chiamano luminose. Ora il tuo nome ci invita al ricordo e al rimpianto e ci insegna nello stesso tempo il valore delle lagrime e della preghiera. È stato bello averti incontrata e conosciuta, Marisa. Per i tuoi cari e per noi tutti stai ora diventando una fonte di luce e di speranza. 
L.D.

1915: con i profughi trentini, sacerdoti del Collegio Vescovile


Annuario del collegio Arcivescovile 1991-1992, n. 58, pp. 33-52

La partenza 


Nel maggio del 1915 la dichiarazione di guerra all'Austria da parte del Governo italiano era nell'aria. In quel momento l'esercito austriaco era impegnatissimo sul confine russo e su quello serbo. Nel Trentino il Comando militare austriaco aveva studiato e preparato una linea di difesa su posizioni arretrate dall'usuale confine, ma ritenute idonee a sostenere e contenere, inizialmente anche con poche forze, l'urto offensivo dell'esercito italiano. 
Nella notte dal 23 al 24 maggio, lungo il fronte di 550 km, dallo Stelvio al Mare Adriatico, l'artiglieria italiana sparò le prime cannonate dando inizio al grande conflitto. All'opinione pubblica trentina la guerra dell'Italia all'Austria fu presentata dall'autorità civile e militare come un vile tradimento, un vergognoso atto di slealtà verso gli alleati tedeschi in un'ora difficile della loro storia, un'opera diabolica della massoneria occidentale contro la cattolica Austria. 
Per le popolazioni trentine in prossimità del fronte il primo doloroso atto della grande tragedia ebbe luogo un paio di giorni prima con l'ordinanza immediata e perentoria dell'evacuazione. Si temeva, in caso di guerra, un'avanzata rapida delle truppe italiane e, pertanto, si impose alla popolazione di abbandonare, in tutta fretta le zone minacciate. 
In ordine di tempo, la prima ingiunzione di partire venne data dall'Imperial Regio Capitano Distrettuale di Riva del Garda il 20 maggio 1915. A mezzo dei gendarmi locali, dei capocomuni e con avvisi affissi alle cantonate delle strade, si avvertiva la popolazione di Riva, Linfano, Torbole, Nago e Varone, di evacuare entro il 2 maggio, cioè entro il giorno dopo. La gente era avvisata di recarsi alla stazione di Riva portando con sé viveri per cinque giorni, i documenti personali, una coperta di lana, posate con un piatto, un bagaglio non eccedente il peso di 10-15 chilogrammi. Si dovevano lasciare liberi gli animali da cortile, aprendo pollai e conigliere. Il bestiame grosso, bovini ed equini, capre e pecore, erano da condursi sulla piazza di Riva e da consegnarsi ai gendarmi che avrebbero rilasciato una ricevuta. Se questi non erano presenti, le bestie si dovevano lasciare libere sui campi e prati vicini con l'indirizzo del proprietario legato alle corna o al collo. 
Si può ben immaginare la disperazione della gente, formata, per lo più, da donne, vecchi e bambini, poiché gli uomini abili dai 20 ai 42 anni erano tutti assenti, mobilitati già nell'agosto del 1914 e avviati sul fronte galiziano contro la Russia. 
Furono ore di dolore e di angoscia, tra pianti, imprecazioni e urla. C'erano gli ammalati da trasportare e anche i propri morti da salutare, con una visita al cimitero e alla chiesa. Al sindaco e alle persone delegate per il controllo del paese e per la tutela dei beni delle famiglie, si consegnavano le chiavi delle case. Ci sarà bisogno di chiedere indumenti e oggetti vari, quando si sarà giunti a destinazione. Soprattutto si spera di ritrovare ciò che affannosamente si è nascosto negli avvolti o nelle cantine: i rami, la biancheria, i mobili migliori. 
Nella mattinata del 21 maggio una lunga processione di gente giunge a Riva e si reca alla stazione, in attesa del treno. Per le strade della cittadina si vedono cani, gatti, perfino capre, arrivati lì al seguito delle famiglie. Appena il treno parte con i profughi, i gendarmi uccidono i poveri animali a revolverate.

Il giorno 22 maggio sono di turno la Valle di Cresta e la Valle di Ledro. Dalla prima scendono verso Loppio e Mori, diretti ad Isera e Villa Lagarina, i carri trainati da buoi e da mucche, carichi di ammalati e di impotenti. Il resto della popolazione si avvia a piedi, in obbedienza all'ordine ricevuto, verso passo Bordala e Castellano. Si attendeva in quei giorni alla coltura dei bachi da seta, che si dovettero buttare via negli orti. 
Si parte verso l'ignoto, sulla via dell'esilio. Alla gente si ripete che l'assenza non durerà a lungo, al massimo tre mesi. Si prolungherà, invece, per quaranta mesi carichi di rinunce, di sofferenze, di profonde tristezze e di accorata nostalgia per la casa lontana; e molti degli esuli non torneranno. 
In Valle di Ledro l'ordine di abbandonare i paesi arrivò nel pomeriggio del 22 maggio, vigilia di Pentecoste. La popolazione della parte bassa della Valle, da Molina a  Prè e Pregasina, dovrà raggiungere la mattina del 24 maggio il treno a Riva, mezz'ora prima delle ore nove; quella della parte alta, da Mezzolago a Lenzumo, scenderà più tardi, per raggiungere il treno delle una pomeridiane. Partiranno portando zaini, borse, sacche, dove hanno messo pane, galline bollite o arrostite, o ciò che premeva loro, sollecitati e spinti dagli uomini della gendarmeria, correttissimi fino al giorno prima verso la gente, diventati ora, all'improvviso, severi e minacciato.
Il 24 maggio veniva emanato l'ordine di evacuazione per la città di Rovereto. Nella memorialistica che ci è pervenuta e nel racconto dei protagonisti, è possibile rivivere, lo sconcerto della città all'ordine di  partire in fretta e furia. L'esodo è quasi totale. Una processione interminabile di donne, vecchi e bambini, tutti carichi di vesti involti e sacchi, arriva alla stazione, da dove partono lunghi treni con trenta e più carrozzoni. Si cerca anzitutto di sistemare alla meglio gli ammalati, destinati agli ospedali di Innsbruck e di Salisburgo. Il viaggio di 20-22 ore sarà per loro un calvario. Il primo treno partì con 1200 persone il 23 maggio e altri due si mossero il 24. Unica nota di colore è data dalle orfanelle roveretane, accompagnate da alcune suore di Maria Bambina. Le orfanelle, eccitate, emozionate, ignare del loro destino, ma quasi felici di andare verso un mondo nuovo, incontro ad un'avventura, quando il treno si muove, si agganciano ai finestrini e osservano incuriosite, tra commenti allegri, i bei paesaggi che sfilano via veloci. 
Da Arco, il 24 maggio, partono dapprima i 32 orfanelli della Provvidenza, di età tra i 3 e 10 anni, sopra tre carri tirati da un bue, un mulo e un asinello. Sono accompagnati da due suore e da un sacerdote. La strada verso Trento è lunga, pesante e infangata. Ad un certo punto l'asinello stramazza in terra sfinito, il mulo si ostina a non andare avanti, il carro del bue perde una ruota. Fortunatamente c'è ancora nelle campagne della zona qualche anima buona che accorre e aiuta. Quando finalmente il convoglio arriva in piazza Dante, davanti alla stazione, sembra una carovana di zingari, con tutti i bambini che piangono e strillano. 
Dopo gli orfanelli, partono da Arco altre due carovane: la prima di quattro carri e la seconda di undici, tirati da buoi, con novanta poveri vecchi e otto dementi dell'ospedale-ricovero. Sono assistiti da quattro suore di Maria Bambina e dal giovane cooperatore don Bartolomeo Fioriolli. 
Trento fu dichiarata dal Comando Militare zona di guerra e fortezza. Le famiglie che non possono garantire di aver provviste per tre mesi devono partire. Apposite commissioni del Comando di Fortezza sono incaricate delle verifiche: solo le famiglie che dispongono per persona di 60 kg di Farina e di altri 30 kg di articoli alimentari vari ricevono il permesso di restare. Il 25 maggio 1915 partono per la Boemia le famiglie delle parrocchie di S. Maria Maggiore, Piedicastello e Vela. Un grande numero di cittadini le accompagna alla stazione; un apposito comitato, costituitosi in tutta fretta, porta viveri e bevande e rivolge parole di incoraggiamento ai più desolati. Il 26 maggio partono le famiglie più povere della parrocchia del Duomo e il 27, con due lunghissimi treni, quelle di San Pietro. Il 28 vengono sfollati gli abitanti di Povo, Villazzano e Valsorda, con una tradotta che partì da Mattarello con 1.352 profughi. Seguirono altri treni con profughi di Romagnano, Ravina e Gardolo, circa 6.000. Da Trento città e dai sobborghi furono allontanate complessivamente 27.256 persone. Ad ogni partenza di questi lunghi, tristi convogli anche il Vescovo di Trento, mons. Celestino Endrici, si recava alla stazione a salutare i profughi.
Dal 28 maggio in poi per più giorni, quattro treni di oltre 30 vagoni partirono dal Trentino ogni 24 ore con destinazione Salisburgo, carichi di profughi che provenivano dai paesi vicini a Rovereto (Besagno, Mori, Sacco, Isera, Terragnolo), dall'altopiano di Lavarone e dalla Val d'Astico, dalla Valsugana e dalla Valle del Sarca (Dro, Drena e Pietramurata). 
Il 24 e 25 agosto avviene l'esodo della popolazione di Vermiglio. Dalle montagne del Tonale qualche bomba dell'artiglieria italiana cominciò a battere il retroterra austriaco e Vermiglio si trovò a correre seri rischi. Fu decisa l'evacuazione. Sui carri si fanno partire gli ammalati e il resto degli abitanti, circa mille persone, si avvia a piedi fino a Male, commiserati e salutati nel pianto dalla gente dei paesi 
della Valle di Sole che accorre sulla strada e offre quello che ha, pane, vino e frutta. A Malé salgono tutti sulla tramvia che li porta a San Michele, dove vengono trasbordati sui treni che partono per oltre Brennero. Il l° settembre parte ancora da Pergine un treno con 700 profughi della Valsugana. Ultimissimi a sfollare saranno quelli della Vallarsa nella primavera del 1916.
Complessivamente abbandonarono il Tirolo Italiano circa 75.000 profughi: 13000 per le valli settentrionali del Trentino e del Tirolo; 16.400 per la Boemia; 19.600 per la Moravia; 13.900 per l'Austria Inferiore; 12.300 per l'Austria Superiore. 
Salisburgo, posto come è nel cuore del grande impero asburgico, divenne, per gli esuli trentini, il principale centro di smistamento. Qui successe di tutto: talvolta i profughi dovettero attendere ore, perfino giorni, sotto le tettoie di una mattonaia, prima che arrivassero i treni destinati a trasportarli in Boemia, in Moravia o verso l'Austria Superiore e Inferiore. Qualche volta le partenze furono così improvvise e disordinate, che costrinsero molte famiglie a dividersi e a raggiungere destinazioni diverse. 
I lunghi treni che provenivano dal Sud non portavano solo profughi: nei primi vagoni c'erano spesso compagnie di giovani soldati trentini, avviati in Galizia a riempire i vuoti creatisi nei battaglioni dei Cacciatori e degli Alpini, dopo le feroci offensive contro i Russi. Guardavano rattristati la nostra gente nelle stazioni di smistamento, la vedevano scendere in disordine dalle carrozze per soddisfare bisogni personali o avviarsi dietro guardie, che urlavano e gesticolavano, verso altri treni in vista. Soprattutto le povere donne attiravano la loro attenzione, tutte cariche di fardelli, preoccupate di tener vicino i bambini che piangevano e chiedevano pane e acqua e di sorreggere qualche vecchio nonno. Vedevano gendarmi, «quei briganti in montura che accompagnavano fuggiaschi», come li chiama uno di loro nelle sue memorie1, spingere brutalmente quella gente nei vagoni a urti e pedate, perfino a frustate. Scene da far pietà ai sassi! Non frequenti, ma nemmeno tanto rare! 
Una volta, alla stazione di Lambach vedere ciò che avveniva fuori con i profughi della Valle di Ledro, i nostri soldati cominciarono a urlare dai vagoni sbarrati. Erano impossibilitati ad aiutare ma avevano tanta rabbia dentro. Uno di loro, pensando di mandare un saluto e un incoraggiamento ai profughi, intonò quel canto che allora era molto familiare nei paesi del Trentino: «Va pensiero sull'ali dorate». Tutti i compagni si unirono con voce forte, ma «non si giunse nemmeno a metà della canzone che la massima parte della compagnia aveva le lacrime agli occhi». (Continua)

1.Bernardi Daniele, Avventura di una soldato, maggio 1915, Archivio della scrittura popolare presso il museo del Risorgimento e della lotta per la libertà, Trento.



Il clero trentino


Nel dramma degli esuli il ruolo più importante fu svolto dal clero trentino. Centocinquanta sacerdoti di cura d'anime, parroci e cappellani e religiosi, decisero senza indugio di condividere il destino delle loro popolazioni e partirono insieme. In taluni casi se ne andarono anche loro portando con sé solo quanto avevano indosso, dimenticando perfino il breviario e senza attendere istruzioni in proposito dall'Ordinariato Vescovile e senza procurarsi lettere commendatizie per la diocesi e per le parrocchie che li avrebbero ospitati. 
Non vollero abbandonare il loro popolo. Più ancora delle autorità civili e militari, furono loro il primo vero, grande e generoso aiuto per i 75.000 profughi trentini. La loro opera, quando i treni cominciarono a scaricare all'interno dell'Impero le masse degli sfollati, divenne decisiva, la più preziosa. I sacerdoti trovarono fortunatamente immediata ospitalità nelle canoniche o presso le famiglie religiose cattoliche delle zone raggiunte. Trovarono quasi dappertutto porte aperte e un'accoglienza fraterna che onora il clero boemo e austriaco. Non chiedevano molto, solo di avere un letto per la notte. Di giorno, a piedi o su carri o in treno erano continuamente in giro a trovare la loro gente, dispersa magari in 20-30 località diverse, distanti anche trenta chilometri, priva di qualsiasi conoscenza della lingua boema e tedesca. Divennero immediatamente lo strumento d'assistenza più tempestivo e più efficace, sul quale si appoggiò pure l'autorità locale e quella centrale del Governo con totale affidamento. 
Siccome la maggior parte del clero conosceva le parole più comuni e le strutture grammaticali della lingua tedesca, la sua opera divenne indispensabile. I parroci si trasformarono in mediatori tutto fare, che i profughi cercavano con la massima fiducia per ogni sorte di problemi, sia spirituali che materiali. Divennero i portavoce e gli interpreti delle più svariate richieste presso le amministrazioni locali, Comuni e Capitanati. Bisognava provvedere di paglia i dormitori dei profughi, procurare viveri, cercare coperte per le notti ancora fredde, sistemare gli ammalati negli ospedali. Bisognava organizzare i soccorsi, sostenere i profughi nei loro disagi e nei loro diritti, riunire le famiglie divise, cercare lavoro per gli uomini anziani e per le donne giovani, creare buoni rapporti con l'autorità civile locale. 
In un secondo tempo l'opera dei sacerdoti si fece più personale, più intima: necessitava consigliare. confortare, organizzare un'azione pastorale che aiutasse i profughi a non disperare, ad aver pazienza, a farsi stimare e rispettare dalle popolazioni ospitanti. L'incontro domenicale della messa, favorito dal clero indigeno con grande disponibilità, quello delle confessioni, distribuite in ore opportune anche nei giorni feriali, la premura di offrire una cultura religiosa ai bambini e ai fanciulli, tornarono ad essere i momenti più importanti e più fruttuosi per il sostegno morale dei profughi. 
Il Vescovo mons. Endrici intuì immediatamente che l'assistenza ai profughi non si poteva lasciare alla generosa iniziativa dei singoli parroci, ma andava coordinata dall'alto. Nominò subito un Commissario Vescovile nella persona di don Germano Dalpiaz che fino a quel momento era il responsabile dell'ufficio amministrativo della Curia. Fu una scelta felicissima, per le doti manageriali dell'uomo e per la buona conoscenza che aveva della lingua tedesca. Fu inviato fin dai primi giorni del grande esodo a Praga e poi a Vienna, munito di ogni delega, perché in accordo con i vescovi locali organizzasse il complesso lavoro d'assistenza. (Continua)

La dispersione nei distretti


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In Boemia e ancor più in Moravia l'accoglienza fu cordiale e premurosa. C'erano i sindaci alle stazioni ed alla guida numerosi carri, che prelevavano 20-30-40 persone e le portavano nelle loro comunità, dove avevano preparato alla bell'e meglio una sistemazione in fabbriche, nelle scuole, nelle stalle o sotto le tettoie di vecchie baracche. Fu una dispersione enorme in tutte le direzioni, per 731 località in Boemia e 772 in Moravia, Dapprima ci si dovette adattare a tutto, a dormire in più famiglie in un unico stanzone sulla paglia, a cucinare insieme con un unico focolare. Poi si cercò dì assegnare ad ogni nucleo familiare una stanza e una cucina. 
Non mancarono nella popolazione ospitante casi di insofferenza e di ostilità, ma restarono provvisori e isolati. Il sospetto che i profughi trentini fossero stati allontanati dalle linee del fronte perché simpatizzanti per l'Italia fu causa nelle prime giornate di freddezza e di ostilità principalmente nei paesi di lingua tedesca. Ma non durò molto. Le autorità e il clero locali dissiparono i dubbi e fecero conoscere le circolari ufficiali del Governo austriaco che raccomandavano di offrire un buon trattamento ai profughi. I capitanati locali si diedero molto da fare. Intervennero anche i parroci dai pulpiti a spiegare alla loro gente l'odissea dei nostri profughi, le cui sofferenze, nel primo periodo dell'esilio, si possono ben immaginare, anche se è impossibile descrivere. 
Lentamente però i trentini cominciarono a farsi conoscere ed apprezzare, per la fedeltà alla pratica religiosa e la frequenza alle messe nelle chiese locali, per la cura dei bambini e dei vecchi. Non assomigliavano per nulla ai profughi che erano arrivati l'anno prima dalla Galizia, così antipatici, sporchi e pigri. I Trentini si guadagnarono presto e quasi dappertutto stima e ammirazione. La gente li vide cercare e trovare lavoro presso le grosse fattorie contadine, per guadagnarsi da mangiare e qualche soldo. E così nacquero tante amicizie che perdurarono anche dopo la guerra, con l'invio di lettere e cartoline per anni e decenni, perfino con scambi di visite, fino ai nostri tempi. 
Nell'Austria Superiore e Inferiore il Governo, già nell'estate-autunno del 1914, aveva provvisto all'alloggio di 700.000 profughi della Galizia polacca, invasa dall'esercito russo. Furono portati in molte province, anche della Slovacchia e dell'Ungheria, e sistemati in edifici pubblici, in capannoni industriali, nelle scuole. Si affidò ad imprese locali la costruzione in serie di baracche di legno che furono edificate in prossimità di piccole città, come Deutsch - Brod, Bruck a.d. Leitha, Wagna, Pottendorf, Mitterndorf e Braunau sull'Inn. Si parlava di «città di legno», perché formate da lunghe serie di baracche, dormitori, cucine, scuole, chiese e ospedali. 
I nomi furono presto noti, tristemente noti. I profughi avrebbero preferito restarne fuori, dispersi nei piccoli villaggi cechi o austriaci, perché in un ambiente libero potevano arrangiarsi meglio. Ma nei mesi di settembre e agosto del '15, il Ministero degli Interni concentrò nell'accampamento di Mitterndorf dalle 10 alle 11.000 persone, e in quello di Braunau sull'Inn altre 10.000, in 100 e più baracche. (Continua)


Don Tomaso Boninsegna (1874-1954)

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Nativo di Predazzo, consacrato sacerdote nel 1897, cappellano di S. Pietro in Trento e dal 1902 padre spirituale presso Il Collegio Vescovile. 
Allo scoppio della guerra con l'Italia si sarebbe potuto fermare a Trento con un certificato di «indispensabilità per la carica occupata», perché delle persone ragguardevoli erano intervenute a suo favore presso la polizia. Scelse in un primo momento di accompagnare i profughi fino a Salisburgo, confortandoli in quei tristi viaggi aiutando soprattutto i vecchi e le mamme con bambini. Fece con loro più di un viaggio, rientrando poi ogni volta a Trento. 
Don Tomaso Boninsegna
Avendo constatato che molti profughi si fermavano ad Innsbruck e avendo sentito che negli ospedali della città c'erano numerosi feriti e ammalati del contingente militare trentino, decise di stabilirsi lì, nel capoluogo tirolese, e di prestarsi per i bisogni degli uni e degli altri. Trovò ospitalità presso le suore dell'Adorazione Perpetua, nella ChotekstraBe. 
I colleghi del Collegio affermano che don Tomaso ricordava raramente questo suo soggiorno. Era un uomo molto austero, di poche parole, che non guardava indietro. Solo dalle testimonianze di numerosi profughi si poté conoscere l'intenso lavoro da lui svolto nella città, non solo per l'assistenza religiosa quotidianamente offerta, ma soprattutto per le prestazioni caritatevoli. 
Quando nell'autunno del 1915 la luogotenenza di Innsbruck ordinò a 10 colleghi sacerdoti del Collegio di lasciare il Trentino e cercare una sistemazione a Salisburgo perché sospettati di irredentismo, don Boninsegna cercò di assisterli in più modi, come pure intervenne ripetutamente presso l'Ispettorato scolastico di Innsbruck in aiuto del Direttore del Collegio Vescovile, mons. Depellegrin, per ottenere l'autorizzazione allo svolgimento degli esami semestrali e di maturità; per gli alunni privatisti e militari. 
Nel giugno 1916, su invito del Commissario Vescovile mons. Dalpiaz, passo a Vienna, come prefetto di disciplina nel convitto aperto nella capitale per gli studenti profughi del Trentino e del litorale triestino che si trovavano nelle zone danubiane. Nel convitto, aperto nell'estate del 1916 con il finanziamento del Ministero degli Interni, in via Mariahilfergürtel nel XIV quartiere di Vienna, trovarono ospitalità numerosi studenti del Collegio Vescovile, circa 30. Frequentavano i corsi di applicazione in lingua italiana di via Rainergasse, inaugurati fin dall'autunno del 1915 dal Comitato di Soccorso per profughi meridionali, alla direzione de quali era stato chiamalo il prof. Arturo Tingler, ex preside del Ginnasio Imperiale di Trento. Onesti espresse parole di lede all'indirizzo degli studenti del Collegio Vescovile, "che si distinguevano dagli altri e per la disciplina e il contegno, e nello studio e nel profitto".
Nel lusinghiero giudizio c'era anche il risultato del lavoro educativo di don Boninsegna. Secondo la promessa fattagli, egli avrebbe dovuto essere il direttore del convitto, ma gli fu affidato all'inizio l'incarico di prefetto di disciplina e poi, alla fine del marzo 1917, fu messo in libertà con buon garbo, e il convitto fu assegnato in toto a Padri Salesiani di nazionalità tedesca che parlassero bene l'italiano.
Don Tomaso non drammatizzò il fatto e ritornò ad Innsbruck dove la sua opera era particolarmente desiderata. Il 1917 fu "l'anno della fame" per l'impero austroungarico. Nei negozi delle città non si trovavano nemmeno patate. Don Boninsegna si industriò con ogni mezzo pur di procurare anche piccole quantità di cibo per i suoi bisognosi. Rientrò a Trento nell'autunno del 1918 assai provato nella salute, anche se era di costituzione robusta, ed aveva una corporatura da gigante buono. Nel 1919 divenne arciprete di San Pietro a Trento e canonico onorario. (Continua)

Prof. don Emilio Cipriani (1872-1952)

Nativo di Marter in Valsugana, fu consacrato sacerdote nel 1896. Laureatosi ad Innsbruck in lettere classiche, insegnò regolarmente nelle scuole del Collegio Vescovile, Partì da Trento il 25 maggio 1915: con un lungo treno dove erano sistemate le famiglie dei portalettere della città e gli ammalati dell'ospedale di Riva. Come si rileva dalle sue lettere all'Ordinariato, fu un viaggio di cinque giorni, pesantissimo per tutti, ma ancora di più per le madri lei lattanti che alle stazioni chiedevano disperatamente un po' di latte. Alla partenza da Salisburgo il treno conteneva un migliaio di persone. Nel viaggio verso Landskron in Boemia fu diviso tre-quattro volte. Alle stazioni c'erano i Capocomuni del distretto che si prendevano chi 30, chi 40, chi 50 profughi. Così i vagoni si svuotavano. Don Cipriani restò sugli ultimi quattro carrozzoni, con due suore e 46 ammalati che provenivano dall'ospedale di Riva: vecchi impotenti tra i 50-80 anni, alcuni epilettici e tubercolotici e cinque pazzi. C'erano anche sei orfanelli e un centinaio di persone, tutte di Marco in Valle Lagarina.
A Landskron, nella diocesi di Königgrätz, come ebbe a scrivere, «l'accoglienza fu commoventissima. Autorità, signori, signorine si precipitarono verso il treno. Prendevano di peso i poveri vecchi tra le braccia per aiutarli a discendere e prima ancora che facessero un passo accostavano alle loro labbra bicchieri di latte». Erano digiuni da 24 ore. Il capocomune fece trasportare con carri 10-15-20 persone nei grandi masi, collocandole presso famiglie e anche in osterie dove c'era uno stanzone libero. 
A don Cipriani, ancora alla stazione, si avvicinò una povera operaia, con tre figlie e due figli giovanissimi che volevano aiutare, e gli offerse alloggio a Novy Byzov che lui accettò con gratitudine. Il giorno dopo si presentò al decano, al sindaco, al commissario di polizia, «tutte persone bene intenzionate», andò a visitare in città la sistemazione degli ammalati e delle suore. Dopo sei giorni poté dire la Santa Messa e nella sua lettera confessa di «aver innondato di lacrime le Sante Specie». 
Poi inizia i suoi viaggi apostolici, perché la sua gente era dispersa in 49 villaggi e lui si era prefisso di visitarla una volta alla settimana. Da per tutto opera da interprete e da intermediario, cercando di procurare miglioramenti immediati nei casi più precari. In poco tempo gli riesce di creare ottimi rapporti con tutti. I profughi lo accolgono «colle lacrime della consolazione», ed i Boemi, «non sono solo buoni, sono ottimi - scrive: tutti salutano, tutti ormai mi conoscono, tutti mi amano per ché mi hanno visto in chiesa piangere dirottamente. Dio si serve di tutto, anche delle debolezze umane».
Nelle lettere dell'autunno del 1915 nominò spesso la Pastorale del Vescovo Endrici. Ne fa il testo ispiratore della sua cura d'anime, afferma di leggerla e commentarla spesso tra la commozione generale. Anche negli anni successivi alla guerra tiene un ricordo vivo, quasi nostalgico della sua lunga permanenza a Novy Byzov, al n. 22, presso la famiglia Jablons-keho. (Continua)

Prof. don Giuseppe Degasperi (1870-1955)

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Nasce a Sardagna, esattamente al Mulino del Rio Vela, lungo la statale per Cadine, che si vedeva cadente e abbandonato fino a qualche anno fa. Consacrato sacerdote nel 1893, passò ad Innsbruck per gli studi universitari, laureandosi nel 1898 in latino e greco. Insegnò tutta la vita, presso il Collegio. Nel 1924 fu nominato Preside della scuola. È l'anno della separazione del vecchio Istituto, con la creazione del Seminario Minore per gli aspiranti al sacerdozio, e del Collegio Pareggiato per i normali studi umanistici. Per due anni fu Preside delle scuole di ambedue le istituzioni. Dal 1926 al 1935 tenne la responsabilità scolastica nel Pareggiato. 
Il 3 luglio 1915 raggiunse i nostri profughi a Weska, vicino a Olmütz, in Moravia. Su un territorio di circa 20 km per 20 c'erano famiglie di Trento, di Levico, della Val di Ledro e di Oltresarca, sparse in dodici paesetti che formavano quattro grosse parrocchie. Trovò una dimora idonea a Weska in una fattoria delle suore Premonstratensi del santuario di Heiligenkreuz. Raccoglieva alla domenica i fedeli trentini nella chiesa parrocchiale di Dolany (Dolein, in tedesco), una borgata abbastanza centrale, raggiungibile senza grossi disagi. 
Don Giuseppe Degasperi
Weska, un paesetto di montagna, era abitato allora da una popolazione in massima parte tedesca. Le suore vi tenevano un'azienda agricola prospera, perché erano loro stesse laboriosissime. Trattarono il sacerdote italiano con benevolenza e con premura. Don Degasperi poté muoversi a suo agio e aiutare dove c'era da aiutare. Constatò con soddisfazione che in breve tempo i profughi si erano acquartierati abbastanza bene. Mancavano di vestiario soprattutto quelli di Levico e di Oltresarca che erano la maggior parte, perché l'evacuazione nelle due località era stata fatta precipitosamente ed erano partiti col solo vestito che avevano indosso e con pochissima biancheria. Allora don Degasperi si diede da fare a cercare indumenti. Scrisse anche a Trento, chiedendo aiuto in questo senso. 
Trovò sul posto un prezioso collaboratore nel collega professor don Giuseppe Segata, che aveva residenza nel santuario di Heiligenberg e accoglieva con cura e affetto i pellegrini trentini che vi si recavano. I due sacerdoti lavorarono di comune accordo, sostenendosi a vicenda, individuando le soluzioni più adeguate per alleviare i sacrifici degli esuli.
In una lettera del 30 dicembre 1915, si volge personalmente al Vescovo Endrici con una scrittura minuta, precisa, quasi perfetta, afferma fin dalla prima riga che il suo messaggio ai «dilettissimi diocesani» profughi, lo incoraggia a fare cosa che ha mai fatto, di scrivere direttamente al suo Vescovo per ringraziarlo a titolo personale e a nome dei profughi affidati alle sue cure «del dolce conforto recatoci colle sue sante parole, evidentemente uscite dal cuore riboccante di amarezza e sollecitudine per la triste disgraziata dispersione del suo gregge». 
Nel rivolgergli un augurio per il nuovo anno, a nome di tutti, perché il Signore si degni abbreviare al Vescovo e alla Diocesi i giorni della tribolazione, aggiunge una breve nota, che i suoi profughi in generale si comportano bene ed i parroci locali non hanno da lagnarsi, anzi, hanno parole lusinghiere per loro. (Continua)

Don Giuseppe Nardoni (1875-1957)


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Nativo di Cembra, consacrato sacerdote nel 1900, fu dapprima cappellano ad Avio per due anni, poi passò al Duomo di Trento fino al 1910 quando fu nominato prefetto di disciplina al Collegio Vescovile. Non godeva di buona salute e nel 1914 trascorse diversi mesi ad Arco, in casa di cura. Per una brutta caduta si era anche slogato una spalla in malo modo. Accettò comunque di partire con il condiscepolo don Riccardo Mattei insieme alla popolazione della parrocchia di san Pietro di Trento, il 26 maggio 1915, destinazione Libuschin in Boemia. Dopo 40 giorni di soggiorno, non ne poteva più, si ammalò e dovette rientrare. Si fermò a Bronzolo dall'amico parroco, da dove inviò una lettera al segretario del Vescovo di Trento, Guadagnini, dicendo: «Come sai anche tu, io non sono capace di andare tanto piedi, sono di quelli da ferma, ed in Boemia, per la cura d'anime, era assolutamente necessario un Moto continuo, cosicché... vista la difficoltà pensai di stabilirmi in questo paese, dove certo non manca da lavorare per il popolo: vi sono molti lavoratori, parecchi anche stranieri...» 
La permanenza a Bronzolo durò un paio di mesi. La precarietà della salute lo obbliga a lasciare anche questo campo di lavoro e a tornare a Cembra, presso i familiari, fino al novembre 1916. 
Rimessosi alquanto in salute, la Direzione del Collegio, senza alcuna difficoltà ottiene dalla polizia il permesso di poterlo avere a Trento in Collegio, come aiuto segretario. Vi resta fino alla conclusione della guerra. (Continua)

Prof. don Giuseppe Segata (1865-1916)


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Nativo di Trento, frequentò per due anni il Ginnasio Imperiale e poi passò al Vescovile, distinguendosi per diligenza, profitto e bontà. Su consiglio del Vescovo mons. Dalla Bona si iscrisse alla facoltà di filosofia e teologia dell'università di Innsbruck. Nel 1888 fu ordinato sacerdote e nel 1890 completò gli studi con la laurea. 
Tornò al Collegio Vescovile come insegnante di tedesco e di italiano.
Si guadagnò presto la stima e l'affetto degli studenti per il suo insegnamento brillante e premuroso. Non c'era mai da annoiarsi durante le sue lezioni. Era un artista, dall'anima bella e sensibile, e per di più era un musicista fine. Gli furono affidati il coro e il teatrino dell'Istituto, ai quali per ventidue anni dedicò il tempo libero, con grande energia e buon gusto. 
Il teatro del Collegio era sistemato in un primo tempo nella casa centrale di via Madruzzo, al piano terra, di fronte alla cappella, nella sala che oggi contiene la biblioteca diocesana «Antonio Rosmini». Aveva un palcoscenico ampio e profondo, la platea in leggera pendenza e una graziosa loggia. Possedeva scenari e quinte dipinte dal pittore Aldi. Nel 1910 fu sostituito da un teatro nuovo, più vasto e funzionale, costruito sotto la grande chiesa. 
Nell'uno e nell'altro, don Segata, con la sua abilità e pazienza delle rappresentazioni squisitamente artistiche, come l'Adelchi del Manzoni, il Macbeth di Shakespeare, il Nabucco del Verdi e il Polinto di Donizetti. 
Versatissimo come era nella sacra liturgia, coprì con successo per diversi anni l'ufficio di cerimoniere vescovile in Duomo, nei pontificali con il Vescovo. Curò per anni la compilazione del calendario diocesano, anche quello del 1916 durante i primi mesi della sua permanenza tra i profughi in Moravia. 
Don Giuseppe Segata
Nell'estate del 1915 avrebbe potuto accompagnare il Vescovo a Don, in Val di Non, dove questi si recava per un po' di vacanza. Preferì partire con i profughi di Trento, insieme con il collega don Giuseppe Degasperi, il sabato 3 luglio 1915, destinazione Olmütz in Moravia. Trovò una sistemazione personale in un solitario convento delle suore Norbertine vicino al celeberrimo santuario di Heiligenberg (Suaty Kopecek), nelle vicinanze di Olmütz. 
Al santuario arrivavano i profughi del circondario, sempre più numerosi dopo che ebbero incontrato don Segata. Anche molti soldati trentini, acquartierati a Olmütz, cercavano di lui, prima di partire per il fronte. Don Segata non si risparmiò minimamente fin dai primi mesi, sempre presente disponibile nella sua stanzetta a piano terra, ad accogliere chiunque, ad ascoltare ogni bisogno, ogni penitente, a consigliare ed assolvere la sua gente. Parlava e parlava per diverse ore al giorno. 
Dopo il quinto mese avvertì che la sua voce si incrinava, affaticata. Gli doleva la gola. I medici di Olmütz diagnosticarono un tumore maligno. Solo un'immediata operazione poteva prolungargli la vita; ma con l'intervento chirurgico avrebbe perso la voce e avrebbe dovuto nutrirsi con una cannuccia. Don Segata capì la gravità del dramma che gli toccava, rifletté sulle conseguenze dell'intervento chirurgico e confidò ad alcuni confratelli: «A che vivere più a lungo, quando non posso vivere come prete?». 
Rifiutò l'intervento e continuò a dire la messa e a predicare nel Santuario, a dare comunicazioni e istruzioni ai profughi finché ebbe un filo di voce. 
Negli ultimi tre mesi dovette nutrirsi solo di liquidi, si indebolì molto e non fu più capace di entrare nel Santuario. Cominciò a dire la messa nella cappella del convento, oggetto delle cure più premurose da parte delle suore. 
Venne il giorno in cui per l'estrema debolezza non fu più in grado nemmeno di alzarsi. Per un mese, ogni mattino gli venne portata la Santa Comunione. Fu questo il mese che documentò di che tempra fosse fatto don Segata, e svelò tutta la bellezza e la grandezza della sua anima, e la qualità della sua opera tra i profughi. Venivano tutti i giorni, singolarmente o a gruppi sotto la finestra della sua stanza, chiedevano se migliorasse, se c'era speranza di guarigione. Alcuni ricevevano il permesso di fargli visita, e gli portavano fiori. Don Segata ringraziava con quel sorriso di simpatia che gli era naturale, su un volto orribilmente dimagrito e con la mano stanca. Li faceva avvicinare al capezzale e chiedeva loro, con un filo di voce, come stessero le loro famiglie, se il figliolo o il marito avesse scritto dal fronte, se avessero ricevuto la biancheria e le scarpe, se trovassero da comperare patate o polenta, che notizie avessero della patria lontana. Desiderava che parlassero anche tra loro, chè lui li ascoltava volentieri. 
Dal letto impartì ancora l'assoluzione a vecchi, donne e ragazzi che chiedevano di confessarsi da lui. Quando avvertì che l'ora della fine si avvicinava, pregò un confratello di leggergli dal rituale le preghiere dell'agonia. Su un pezzetto di carta scrisse per il suo funerale: «Prego il colore violetto!». Si spense la mattina del 25 aprile. Attorno alla sua bara si raccolsero tutti i «Flüchtlingsseelsorger», tutti i «curati» dei profughi della Moravia. Con la gran folla dei nostri emigrati, dopo un cammino anche di 4-5 ore, c'erano tedeschi e moravi venuti ad esprimere il loro cordoglio e la loro ammirazione per quel prete che per soccorrere meglio la sua gente si era perfino premurato di apprendere la lingua ceca. Ai funerali, celebrati dal prevosto del Santuario, intervennero i due colleghi d'insegnamento al Collegio Vescovile, don Giuseppe Degasperi e don Carlo Sonn, il Presidente del Comitato Centrale dei profughi a Vienna, don Germano Dalpiaz con l'onorevole Alcide De Gasperi, ex alunno del professor Segata. Il discorso funebre fu detto parte in italiano e parte in boemo da don Oreste Rauzi, cooperatore dei profughi di Levico e futuro Vescovo Ausiliare di Trento. 
Una signora del posto offrì la tomba di famiglia come asilo provvisorio alla salma di don Segata. I profughi di Heiligenberg, per testimoniare anche in patria i sentimenti di riconoscenza verso il prof. don Segata, per le infaticabili cure ricevute, inviarono un' offerta all'Opera Serafica degli orfanelli di Cognola. (Continua)



Prof. don Carlo Sonn (1863-1939)


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Nacque a Mezzocorona, fu ordinato sacerdote nel 1887, si laureò in lingue classiche ad Innsbruck e già nell'autunno del 1889 iniziò il suo insegnamento presso il Collegio Vescovile. 
Con decreto del Vescovo mons. Endrici 1.7.1909, fu nominato Direttore del Collegio Vescovile. Accettò l'incarico per ubbidienza e lo mantenne per quattro anni, fino al 29.7.1913. Uomo umile e riservato, tutto dedito allo studio e alla scuola, operò con prudenza e bonarietà. Vide crescere il numero degli alunni in quattro anni da 388 a 492. 
Don Carlo Sonn
Alla richiesta del Vescovo, rivolta agli insegnanti del Collegio Vescovile nel maggio 1915, di prestarsi per l'assistenza dei profughi, don Sonn vi aderì prontamente, senza discutere. Si unì al parroco di Caldonazzo, don Angelo Dell'Antonio nell'accompagnare in Moravia le famiglie di Coldonazzo e di Levico. Si stabilì a Holleschau (Holesov), cittadina di oltre 8.000 abitanti, con una grossa comunità cattolica di circa 7.000 anime e con un'altra ebrea di 627 persone. In uno scritto del 12.7.1915 al Vicario Generale di Trento, mons. Lodovico Eccheli, comunica di aver trovato accoglienza in canonica dal decano. «Mi vogliono tutti bene. Il decano e i cappellani sono persone bene educate e gentili e tutti capiscono abbastanza bene il tedesco, per cui possiamo conversare in questa lingua, finché saprò un po' di boemo, della quale lingua ho presto studiato la grammatica». 
Aggiunge che ad Holleschau si tiene mercato tre volte alla settimana, con gente che viene numerosa dai paesi circostanti, e tra questa molti trentini sparsi un po' dappertutto. Trova pertanto facile occasione di parlare con loro e di aiutarli nelle loro richieste presso le autorità. Dà atto che le autorità politiche sono assai gentili e disponibili. 
Ha chiesto e ottenuto per i trentini la chiesa di S. Anna, dove di norma confluisce la scolaresca di Holleschau. «Da tre domeniche vi dico la Messa e vi predico. E fin qui posso dire di essere contento della partecipazione degli italiani. Vi convengono da quindici o venti paesi circostanti. Ci sono di quelli che fanno anche due ore di strada per venire. Quanto alla popolazione indigena specialmente nella campagna, mi pare che si trovi sotto l'aspetto religioso allo stadio della nostra, di trenta o quaranta anni fa: frequenta la chiesa, prega, in più, lungo le vie di campagna si sente dire da tutti «Sia lodato Gesù Cristo!» (Pochvalen bud lezis Kristus); non così in città, ove, più di frequente si sente dire: «ma ucta!», (ho l'onore). 
E le donne, non così gli uomini, aggiungono alla pietà una grande laboriosità. «Bisogna vedere come queste estese campagne sono lavorate bene, nonostante la mancanza di tanti uomini. Le nostre donne non possono certo in via ordinaria misurarsi colle donne di qui sotto questo aspetto». 
L'Ordinariato di Trento risponde a don Sonn in data 21.7.1915. Ringrazia delle cure e sollecitudini che si prende tanto per il bene religioso-morale, quanto per il bene materiale-economico dei fuggiaschi diocesani. «... È lieto di sentire che coll'appoggio delle autorità e per la sua premura le condizioni dei fuggiaschi vanno migliorando ed è contento di sapere che essi frequentano con assiduità la chiesa... Ella voglia continuare con il solito zelo a prendersi cura di loro e stia sicuro dei celesti favori, caparra dei quali è la celeste benedizione che Sua A. Reverendissima invia di cuore a Lei e a tutti i suoi diocesani costì dimoranti». (Continua)

Sacerdoti del Collegio Vescovile


Nell'agosto del 1914, il Municipio di Trento requisiva l'edificio del Collegio Vescovile in via Madruzzo destinandolo all'alloggiamento dei Cacciatori Imperiali del III Reggimento (Kaiserjäger), che erano stati richiamati con la mobilitazione generale. 
Il 15 settembre veniva trasformato in ospedale di guerra, con 430 letti, con la presenza di 20 medici e 270 infermieri e l'assistenza del prof. don Germano Poli, facente funzione di cappellano militare. 
Naturalmente in autunno non si poterono riaprire le scuole. Gli alunni restarono nelle loro case e fu loro inviato un programma di studio, da curarsi privatamente o con l'aiuto di qualche parroco locale, in attesa di futuri esami. I sacerdoti insegnanti mantennero per qualche mese la residenza in collegio. Liberi dall'insegnamento, si prestarono in opere di vario genere, chi dando lezioni private, chi aiutando in cura d'anime, chi accettando Incarichi come docenti supplenti nelle scuole statali: i professori Cipriani e Pezzi ginnasio di Ala, il professor Bresco a Rovereto, i professori Gonzo, Less, Segata alla Imperiale Regia Accademia Commerciale di Trento. 
Con la dichiarazione di guerra dell'Italia e il conseguente trasferimento di decine di migliaia di trentini nelle regioni interne dell'Impero Austro-Ungarico fu reso noto a tutti i docenti il pressante invito del Vescovo mons. Celestino Endrici di rendersi disponibili per le nuove esigenze diocesane. Come risulta dalla cronaca del Collegio, scritta dal Rettore di allora don Giacomo Depellegrin, e completata da mons. Angelo Guadagnini1, il Vescovo Endrici si presentò nel refettorio dei docenti sul mezzogiorno della fine di maggio, accompagnato dal suo segretario personale e dal Vicario Generale, mons. Lodovico Eccheli, ed espresse ai professori presenti il desiderio che si prestassero anche loro per l'assistenza dei profughi. Avendo quasi tutti studiato all'università di Innsbruck, la loro presenza tra i profughi non avrebbe giovato solo a questi, ma sarebbe stata di grande aiuto ai confratelli diocesani, meno padroni della lingua tedesca. 
Otto insegnanti accettarono l'invito del Vescovo immediatamente e si dichiararono disposti ad accompagnare anche subito i profughi in partenza, o a raggiungere i luoghi dove i primi gruppi arrivati erano sprovvisti di sacerdote. (Continua)

1.Giacomo Depellegrin, Cronaca del Collegio vescovile, manoscritto presso la biblioteca diocesana A. Rosmini.

Prof. don Cesare Tiso (1867-1930)

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Nacque a Strigno, consacrato sacerdote nel 1890 fu in un primo tempo a Merano e poi destinato al Collegio Vescovile come prefetto di disciplina e insegnante di religione.
Quando l'Ordinariato gli fece pervenire il decreto di trasferimento con i profughi, accettò ponendo una condizione di essere in compagnia di un confratello che conoscesse la lingua tedesca. Partì con il collega don Primo Zanguio, accompagnando profughi di Borgo Valsugana e di Trento, con destinazione Amstetten, nell'Austria Inferiore, Diocesi di St. Pölten. 
In una lunga lettera al Vicario Generale, in data 19.7.1915, confessa che, «sarebbe per me un affare molto imbrogliato se non avessi con me don Zanguio giacché dopo un mese che sono qui non intendo ancora niente. E le occasioni in cui occorre intendere e parlare tedesco si presentano ad ogni momento, se si vuole fare qualche cosa per questa povera gente».
Ad Amstetten erano stati accolti 84 profughi di Borgo, collocati parte in case private ed i più alla meglio in un edificio. Altri 130 alloggiavano a mezz'ora di di distanza, originari da Telve, Villazzano, Mattarello e Sardagna. In due villaggi, a due ore di distanza a piedi, c'era un gruppo di 37 persone, parte di Rovereto, parte di Castagné, Gardolo, Trento. «Li abbiamo visitati due volte. Da per tutto qui i nostri profughi sono ben visti, la gente è buonissima, fa di tutto per aiutarli e per rendere loro meno triste la lontananza dalla patria. Anche le autorità si interessano molto e si mostrano molto gentili. Purtroppo però tra i nostri vi sono due famiglie che non si comportano bene, non possiamo vivere in pace con gli altri, hanno il vizio dell'acquavite e fanno disonore a tutto il gruppo. C'è qui il conte Pompeati colla famiglia. Anche essi fanno di tutto per venire in soccorso della nostra gente».

Nell'agosto del 1915, per ordine del Ministero degli Interni, si iniziò a far affluire i profughi dell'Austria Inferiore nell'accampamento di Mitterndorf. Millecinquecento nel primo mese, e poi, man mano che il campo si allarga con l'aggiunta di nuove baracche, sempre più, per giungere a 10.000 in dicembre. I profughi vi arrivano sprovvisti di tutto, trovano stanzoni privi d'arredamento e di riscaldamento, forniti solo di 200 e più pagliericci. Per mesi e mesi la fame e il freddo saranno i tristi inseparabili compagni del loro soggiorno. 
Vi giunge anche don Cesare Tiso con i suoi profughi. A lui la direzione dell'accampamento affida l'organizzazione della scuola per i minorenni. Con la qualifica di Ispettore Scolastico, diventa il sovrintendente responsabile del funzionamento dell'asilo, dell'orfanotrofio femminile e maschile e della scuola elementare, frequentata da 1750 bambini, suddivisi in 36 classi.
Con il gennaio 1916 il complesso scolastico è pronto, con aule ben fatte e ben arredate. Anche gli insegnanti vengono reperiti tra la popolazione dell'accampamento. Sono quasi tutte donne, con esperienze scolastiche svariate, felici di poter riprendere questa attività. Hanno una media di 24-26 ore settimanali: due ore di religione, sei di lingua italiana, quattro di lingua tedesca, sei di aritmetica, due di storia naturale, due di fisica, un'ora e mezzo di storia, un'ora e mezzo di geografia, un'ora di canto. L'orario è adattato alle esigenze dell'accampamento, dalle 11 alle 13 al mattino, e dalle 15 alle 18 al pomeriggio, perché gli alunni possono poi accedere con la gamella in mano alla distribuzione del pranzo e della cena. 
La maestra Filomena Boccher, nel suo noto diario1, parla più volte dell'Ispettore Scolastico don Tiso. Non ha per lui le parole di ammirazione che attribuisce al cappellano di Vermiglio, don Saverio Mochen, «il sacerdote che più si è accaparrato la stima dei profughi». In don Tiso vede il superiore, il funzionario e non gli risparmia delle critiche. Dove è da trovarsi la verità, nelle parole della brava maestra che però riconosce di essere impulsiva e di mancare di calma e di serenità, o nelle prestazioni multiformi e non facili, e pur sempre responsabili del sovrintendente scolastico in un accampamento come quello di Mitterndorf?
Il prof. don Tiso rimase fino alla chiusura del campo nel dicembre 1918. Quando le suore poterono disporre di una cappellina, dal 17.12.1917 fino al Natale 1918, don Tiso dirà ogni giorno per loro la Santa Messa. (Continua)
Don Cesare Tiso con una classe del campo profughi di Mitterndorf

1.Filomena Boccher, Diario di una maestra in esilio nel lager di Mitterndorf, Edizioni Cassa Rurale di Roncegno, 1983




Prof. don Primo Zanguio (1884-1933)


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Nacque ad Aldeno, fu consacrato sacerdote nel 1908, studiò ad Innsbruck materie classiche e filosofia. Partì con il collega don Tiso accompagnando i profughi della Valsugana fino ad Amstetten nell'Austria Inferiore dove per due mesi fu ospite del parroco del luogo. Quando nella tarda estate i profughi della cittadina e dei dintorni furono trasferiti a Mitterndorf, mentre don Tiso restò nell'accampamento dove c'erano già altri sacerdoti trentini, il prof. Zanguio accettò di passare in Moravia, dove c'era penuria di sacerdoti. Trovò una buona sistemazione a Kunstadt, nel castello, ospite della nobile famiglia CondenhoveHonrichs della diocesi di Brünn. 
All'Ordinariato di Trento scrive in data 18.12.1915: «Qua fuori la vita corre quasi normalmente; io certo non posso lagnarmi perché godo tutte le attenzioni della nobile Signora Contessa CondenhoveHonrichs, della quale sono ospite. Anche i profughi del mio circondario, posso dirlo per esperienza fatta altrove, stanno relativamente bene. Sono provveduti piuttosto largamente di capi di vestiario e di altri oggetti più necessari. Hanno sufficienti comodità di provvedere ai loro bisogni spirituali, e i più vicini possono mandare i figlioli alla scuola, che è abbastanza provvista di testi scolastici e quaderni da distribuire. Per le ragazze fu istituita anche una piccola scuola di lavoro, che procede regolarmente bene». In una cartolina dell'11.10.1915, che riporta il castello e la cittadina di Kunstadt, aveva già scritto al Vicario Generale, mons. Lodovico Eccheli, di aver cominciato ad insegnare catechismo nella scuola, organizzata con l'appoggio della Contessa e delle autorità locali a Kunstadt. Chiede che gli vengano spediti dei catechismi ed una Storia Sacra. «In gene-rale, qui e nei dintorni, i nostri profughi sono bene collocati, e la gente è buona». 
Lorenzo Dalponte